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domingo, 8 de diciembre de 2013

L'Albero delle pere - Francesca Archibugi (1998)


TITULO ORIGINAL L'albero delle pere 
AÑO 1998
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e inglés (Separados)
DURACION 88 min.
DIRECCION Francesca Archibugi
GUION Francesca Archibugi
MUSICA Battista Lena
FOTOGRAFIA Luca Bigazzi
MONTAJE Esmeralda Calabria
REPARTO Valeria Golino, Sergio Rubini, Stefano Dionisi, Niccolò Senni, Francesca Di Giovanni, Chiara Noschese, Victor Cavallo, Maria Consagra, Giuseppe Del Bono, Raffaella Lebboroni, Sergio Pierattini, Serena Scapagnini, Bruno Sclafani, Paolo Triestino, Raffaele Vannoli, Silvio Vannucci, Andrea Liu Junyu, Corrado Invernizzi, Patrizia Rosati, Corinna Lo Castro
PREMIOS 2008: Festival de Venecia: FIPRESCI y Mejor joven actor o actriz emergente (Niccolò Senni)
PRODUCTORA 3 Emme Cinematografica / Dania Film / Istituto Luce / Rai Cinemafiction
GENERO Drama

SINOPSIS El árbol de las peras es una película sobre la preocupación de un adolescente por su adorable y traviesa, media hermana, Domitilla. Es también la historia de cómo este joven tiene que asumir, prematuramente, las responsabilidades del mundo adulto en un entorno de traficantes, drogadictos y una familia en el camino de la perdición. (FILMAFFINITY)

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Subtítulos (Español)

Subtítulos (Inglés)


TRAMA: 
Siddharta, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti. Il padre del ragazzo è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddharta se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti per proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddharta adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt, dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

CRITICA: 
"'L'albero delle pere' è un film dove ognuno ha perso la sua identità: i genitori non sono più genitori e i figli non sono più figli, investiti di responsabilità superiori alle loro forze. Uno di quei film che a Venezia ha rischiato il linciaggio e che proprio per questo - visto che si tratta di una storia originale raccontata con estrema vivacità - alimenta il sospetto che tanta acredine sia motivata da un eccesso di sincerità. Francesca Archibugi non esita infatti a mettere in scena la sua generazione interrogandosi criticamente su un passato punteggiato di delusioni, sconfitte e responsabilità. Un po' come aveva fatto Marco Bellocchio con 'Il principe di Homburg'. Ovviamente la situazione descritta è piuttosto forzata, oltrepassa i limiti della credibilità e funziona soltanto se accettata nella sua paradossalità. Ma è proprio questo aspetto a far risaltare, e con evidente contrasto drammatico, lo sconquasso di un nucleo familiare dove ognuno ha abdicato al suo ruolo". (Enzo Natta, 'Famiglia Cristiana', 10 novembre 1998)

"I personaggi ne 'L'albero delle pere', risultano spesso stereotipati; gli episodi della loro vita angusta risultano a volte melensi, e gli interpreti sono mediocri. Ma non sono molti i registi italiani che abbiano come Francesca Archibugi la capacità di descrivere con esattezza scoraggiata certi luoghi dell'esistenza della gente comune, il supermercato e i corridoi della USL, l'oscurità domestica nei pomeriggi invernali e le aule della scuola, l'ostentazione velleitaria delle cerimonie laiche, l'esibizionismo e l'egocentrismo scemo anche delle figurette più irrilevanti. Ed è raro pure il tentativo riuscito di usare una storia famigliare con bambini per un esercizio di stile espressivo: Roma vista nei suoi quartieri senza bellezza né estetica della povertà, gli appartamenti abitati dallo squallore, vengono esplorati dalla macchina da presa con una ricerca figurativa ostinata ed efficace, con una sapienza persino eccessiva moltiplicata dalla fotografia molto bella di Luca Bigazzi". (Lietta Tornabuoni, 'L'Espresso', 17 settembre 1998)

"Molte ambizioni, appunto, e molti temi: padre, figli, a generazione del dopo Sessantotto: i guasti e i disagi dell'oggi, le possibilità e i destini delle generazioni future figlie dell'informatica. Però, se nella struttura del racconto c'è poco ordine, se qualche personaggio che si affaccia all'ultimo momento risulta pleonastico e se i protagonisti adulti rischiano, a volte di essere più emblematici che non autentici, i modi con cui la regia poi li rappresenta si conquistano non di rado un vero e proprio stile. All'americana, se vogliamo, ritmi a singhiozzo, immagini volutamente sporche, sempre con l'aria di far della realtà realissima - un'espressione onirica, fra luci che si offuscano e si macchiano, con inquadrature sghembe dipanate spesso con fulminanti respiri e un sonoro al diapason. In contrasto, ma non in contraddizione, certi scontri familiari sono dosati invece con calma e certe pagine, pur quiete, hanno tutto il tempo di svelare invenzioni anche fantasiose. Un'Archibugi sempre più matura, insomma, anche se, pretende molto, non risolve tutto. La mamma è Valeria Golino, stralunata a dovere, Massimo è Sergio Rubini, all'inizio molto 'capellone', il borghese Roberto è Stefano Dionisi, In giacca e cravatta, Siddharta si chiama Niccolò Senni. Lo rivedremo". (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 5 settembre 1998)

NOTE: 
- REVISIONE MINISTERO AGOSTO 1998.
- PREMIO OSELLA D'ORO PER LA MIGLIOR FOTOGRAFIA A LUCA BIGAZZI E PREMIO MARCELLO MASTROIANNI COME MIGLIOR ATTORE EMERGENTE A NICCOLO' SENNI ALLA 55. MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA (1998).
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Trama
Siddartha, ragazzo di quattordici anni, abita a Roma con la madre Silvia che non lavora e vive di espedienti e varie amicizie. Il padre di Siddartha è Massimo, regista sperimentale che lavora in maniera saltuaria. Silvia ha anche una bambina di due anni, Domitilla, nata dalla relazione con Roberto, che lavora come avvocato nello studio del padre ed è l'unico sostegno della famiglia. Domitilla vive con il padre ma a Natale si trasferisce dalla madre e vive una vita del tutto diversa accanto al fratello. Succede che un pomeriggio, mentre Silvia è fuori casa, Domitilla trova nella borsa della madre una siringa e accidentalmente si punge. Siddartha se ne accorge per primo e decide di affrontare la situazione da solo, senza coinvolgere gli adulti e intenzionato a proteggere la madre. Al pronto soccorso e dallo specialista deve far finta di parlare per conto di altri e, dopo aver ritirato i risultati delle analisi, scappa dalla finestra dell'ufficio per non rivelare il nome della sorellina. Ma la situazione arriva alla fine in evidenza e tra i due padri e Silvia lo scontro è molto duro. Silvia è decisa a cambiare vita ma il suo proposito è di breve durata: muore in un incidente di macchina. Siddartha adesso si sente davvero solo. All'uscita da scuola, vede in lontananza i due padri e Domitilla da un lato, una ragazzina con cui ha una piccolo flirt dall'altro. Osserva perplesso i riferimenti della sua vita. Poi, con un balzo, decide di allontanarsi non visto.

Critica
Certi genitori non vogliono diventare adulti, restano ragazzi mai cresciuti, Peter Pan velleitari e confusi anche quando sono madri e padri di figli piccoli magari più maturi e responsabili di loro : Francesca Archibugi, dopo Verso sera e Il grande cocomero, torna a questo tema che le é caro, ai bambini e ragazzini che la interessano appassionatamente, con il primo film italiano in concorso alla Mostra, L'albero delle pere (“pere” é inteso nel senso di iniezioni di droga). Domitilla, neppure cinque anni, si graffia per caso con una siringa trovata tra gli oggetti di sua madre Valeria Golino, amorosa e distratta, bella e dannata, il cui slogan nell'uscire inquieto di casa é: Allora, io vado. Siddharta, il fratello adolescente, si allarma, teme che la piccola si sia infettata, ha paura ma non vuole parlarne con la madre per non darle preoccupazione, né vuole parlarne con i padri (il suo, quello della sorellina) Sergio Rubini e Stefano Dionisi, nei quali non ha fiducia: si prende la responsabilità di provvedere agli esami del sangue, di sapere, di trovare un rimedio come fa per tutto nella vita domestica. La morte della madre in uno scontro di automobili aprirà un vuoto immenso nella piccola famiglia, porterà cambiamento e in certo modo restituirà al ragazzino una libertà leggera de la sua età. Siamo alle vacanze di Natale del 1998, e i genitori del film paiono un poco diversamente datati, dislocati a un'epoca anteriore (magari agli ottanta di Piso Pisello di Peter Del Monte), fuori da questo tempo invece così pavidamente ordinato e conformista. Ma Francesca Archibugi sa raccontare come pochi la quotidianità, il linguaggio e i luoghi della gente comune: supermercato, Usl, scuola, l'oscurità domestica dei pomeriggi invernali, le ribellioni filiali repentine ma fiacche (“Se non vuoi che cresciamo, perché ci hai fatti?”), l'autoindulgenza paterna (“Eravamo così giovani...”), l'angustia di vite faticose, affaticate sin dall'infanzia.
Lietta Tornabuoni, La Stampa (05/09/1998)

Vedo in giro qualcuno che fa boccuccia di fronte a L'albero delle pere di Francesca Archibugi. D'accordo, il titolo è brutto: ma lo deplora sullo schermo la stessa protagonista Silvia (la toccante Valeria Golino) perché così ha intitolato il video che su di lei va registrando l'ex marito Massimo (Sergio Rubini), cineasta velleitario. Il problema, comunque, sarebbe che all'interesse dello spunto non corrisponde uno svolgimento impeccabile. Ammettiamolo. E tuttavia mi chiedo: da quante proiezioni del festival si emerge rimescolati dentro, con la sensazione di aver conosciuto gente vera e addirittura con la curiosità di cosa gli succcederà dopo? Che ne sarà del ragazzo Siddharta (Niccolò Senni, una rivelazione), figlio 14enne di Silvia e Massimo, e della sorellina Domitilla (Francesca Di Giovanni), figlia del probo Roberto (Stefano Dionisi) altro “ex”? Per essersi punta con una siringa della madre tossica, la bimba di 5 anni si è beccata l'epatite C: e l'alacre fratellastro si prodiga per fronteggiare la situazione tenendone fuori l'amatissima Silvia. Il seguito potete vederlo al cinema, perché la pellicola è già in prima visione. Tutto si svolge nel quartiere romano del Testaccio, a cavallo delle festività di fine anno, ed è un'occasione per la Archibugi di riproporre un tema a lei caro: il fallimento di una generazione di genitori immaturi, la speranza in un mondo salvato dai ragazzini. Tra i quali Siddharta, ironizzando da solo sul suo nome tributario a una stupida moda d'epoca, prende coscienza di sé alternando lo studio della chitarra alle navigazioni su Internet. Più che la trama avvincono le varie situazioni intonate a quell'intimismo sociale che l'autrice aveva già sperimentato in Il grande cocomero. Non c'era bisogno, per dire la verità, di intromettere il video, di rivisitare Roma dall'alto di un aereoplano o di far sfilare certe manieristiche testimonianze al funerale. Però, rilievi a parte, è giusto inchinarsi ai film che hanno un'anima.
Tullio Kezich, Corriere della Sera (05/09/1998)

Crescere nonostante i genitori: lo slogan che ha accompagnato il film, sulle locandine e sui manifesti, è di impatto ma non rende completamente il percorso compiuto dal protagonista Siddharta, quattordicenne che nel breve periodo delle vacanze di Natale si rende conto non solo dell'inaffidabilità degli adulti che lo circondano, ma anche della necessità di costruirsi una propria autonomia, con la consapevolezza di dover fronteggiare situazioni difficili, lutti, dolori, ipocrisie. 
Il film si incentra sul percorso di crescita del protagonista, che ironicamente si autodefinisce "Buddha da magro", e utilizza l'episodio della siringa e del rischio di infezione per Domitilla come pretesto narrativo che permette a Siddharta di superare la propria linea d'ombra. Ne emerge un ritratto problematico e poliedrico in cui il protagonista è sempre diverso: protettivo, esigente, arrabbiato, duro, tenero, fragile, risoluto, indeciso. 
Il film traduce le discontinuità del protagonista, sempre in movimento sul suo motorino, con ricorrenti inquadrature dall'alto che ne enfatizzano i percorsi labirintici, in una Roma livida e indifferente; oppure con i frequenti cambi di ritmi musicali, ora melodici ora elettrici, che rendono il gioco di sentimenti a un tempo contrapposti e complementari. 
Il senso di spaesamento da un lato e la necessità di organizzarsi in modo autonomo dall'altro derivano anche dalla constatazione di un mondo adulto tendenzialmente immaturo. Appare significativo che nelle relazioni intergenerazionali che tessono i rapporti degli altri personaggi con Siddharta, sia lui a fare l'adulto non solo nei confronti della piccola Domitilla, ma anche nei confronti di Silvia, in un rovesciamento del rapporto genitore-figlio. Viceversa, con le due figure paterne il legame sembra molto meno forte, tra l'indifferenza e la riprovazione per la loro mancanza di coraggio. Il rapporto con la madre è invece molto intenso e umano. Nonostante le manchevolezze e le debolezze di Silvia, il figlio riesce a trovare con lei una capacità comunicativa che sembra fondarsi sull'affetto più profondo, fatto di piccoli gesti e di sentimenti profondi più che di parole. È emblematica, in questa direzione, la sequenza del regalo di Natale, il volo aereo su Roma dolce e triste a un tempo. 
La famiglia di Siddharta appare quindi molto eterogenea e sui generis: a prescindere da ogni riflessione sulla famiglia di fatto o su quella allargata, il film sembra voler sottolineare l'importanza non tanto dei legami di sangue in sé, quanto dei rapporti interpersonali che si vengono a creare, a partire da una effettiva capacità di comunicazione e di coinvolgimento reciproco. Anche se in apparenza i due personaggi femminili sembrano i meno affidabili - per motivi differenti: l'età di Domitilla e i problemi di Silvia -, è proprio con loro che Siddharta ha i rapporti migliori. 
Sullo sfondo appare una società in crisi, tra precarietà lavorativa ed emarginazione, malattie infettive e tossicodipendenza. La droga assunta saltuariamente dalla madre appare però non tanto lo spunto per un'analisi sociologica, quanto l'ennesimo sintomo della debolezza degli adulti, che sembrano aver perso quella carica vitale e quella capacità di affrontare le cose della vita, che invece ritma ogni gesto di Siddharta. Che non a caso, nella simbolica sequenza finale, sceglierà di saltare con un balzo gli ostacoli e defilarsi dai familiari a vantaggio di una coetanea.
Michele Marangi, Aiace Torino


"L'albero delle pere", come la quasi totalità delle opere dell'Archibugi, risulta un'ennesima introspezione psicologica all'interno del nucleo familiare, questa volta però operata con una cognizione differente, forse un po' volutamente anomala. Infatti il nucleo della famiglia protagonista del film si compone essenzialmente di una madre, due fratellastri e due padri; la madre, pur assumendone il significante, in realtà si rivela come una "bambina viziata, viziosa ed insicura", relitto nostalgico e politico dei favolosi anni Settanta che vaga da un buco all'altro, da una relazione più o meno fugace all'altra con indifferenza e senza rispetto per sè stessa e gli altri, mentre le figure paterne in questo caso sono due, uno per ogni figlio, la cui presenza risulta spesso inutile e aggravante di problemi, invece che aiutare e tentare almeno di fornire una retta via alla famiglia (questo particolare un po' antimaschilista rivela la presenza di una donna dietro la macchina da presa).
Il vero "padre" della vicenda risulta così essere il giovane Siddharta, il quale tiene a bada e controlla tutti i membri di questa sgangherata famiglia e si dimostra essere il più adulto tra tutti, dimostrando una grande efficacia organizzativa, ma al tempo stesso la classica insicurezza adolescenziale e l'incertezza sulla strada da prendere; in pratica Siddharta è un eroe, ma non è una divinità, e soprattutto è un essere umano che da solo si trova costreto ad affrontare problemi più grandi di lui, in un mondo in cui gli adulti divengono più ostacoli che ausilio.
Lorenzo Mazzolini

Questa è una storia che appare per certi aspetti irreale, o meglio, fuori da una realtà convenzionale: essa propone una rappresentazione di famiglia che piace per il ritmo e la velocità dei dialoghi ma, allo stesso tempo, disturba proprio in quanto si discosta dal tipo di famiglia comunemente intesa. E’ difficile accettare che a tenere in mano una famiglia sia un figlio adolescente e che i genitori siano assenti oppure inadeguati quando presenti.
Forse non si tratta di irrealtà di organizzazione famigliare, ma le problematiche e il disagio che vengono rappresentati sono particolari e “sovversivi”: è la madre la tossicodipendente contro gli stereotipi che forse vorrebbero il figlio; il padre è un artista perduto attaccato a ideali sessantottini; il figlio potrebbe opporsi, polemizzare, arrabbiarsi o piangere mentre ha una spiccata capacità di controllare e di adattarsi alle difficoltà quotidiane.
Ciò che colpisce è proprio scoprire un genitore adolescente, incapace di rendersi responsabile di fronte al proprio ruolo istituzionale; e un adolescente genitore che è investito di responsabilità che vanno oltre il proprio ruolo. Questa inversione delle parti a tratti appare divertente, ma più spesso apparirà amara. La traccia della storia suggerisce e stimola per chi guarda una nuova trama di regole da giocare.
Il tempo e lo spazio fisico oltre che mentale di Siddharta sono occupati comunemente dal peso della famiglia: se esce con l’amica deve portare con sé anche la sorella; se sta suonando con gli amici deve correre a prendere la madre al bar…
L’adultizzazione di un figlio non è di per sé un fenomeno eccezionale, in questo caso stona con la sua esasperazione che porta Siddharta ad agire in modo autocompensatorio: quando la sorella Domitilla si pungerà con la siringa della madre tossicodipendente (“ci penso io”) Siddharta proteggerà sé e la madre evitano di dire il suo nome.
In genere, i bisogni di protezione e sicurezza, propri di questa età, consistono con i bisogni di indipendenza e realizzazione di sé. In questo caso, la bilancia tra la tendenza a dipendere dagli altri e la spinta dell’autonomia oscilla a favore della prima.
Non a caso, infatti, Siddharta ha per “alter ego” – la voce del computer - che gli ricorda i suoi doveri e sentimenti ma questa volta di adolescente: ti devi alzare…c’è scuola…ti piace quella ragazza? Questa voce si fa sentire come dicesse: “ricordati, Siddharta, ci sei anche tu!”. E’ curioso il paradosso, che questa volta, il Siddharta virtuale sia più reale (vero) del Siddharta in carne e ossa.
Il senso di onnipotenza, la paura di nulla, il bisogno di nessuno che trasmette la mamma Silvia al figlio, mentre volano su un aereo lontani dalla concretezza dei problemi terreni, fanno intuire un Siddharta sempre più preda delle proprie paure e fragilità, sempre più realista.
Nemmeno quando la comunicazione sarebbe spinta dagli eventi (quale l’intervento delle forze dell’ordine) paradossalmente la risposta, questa volta del padre, è: “non ti chiedo niente perché mi fido di te”. Anche Domitilla conferma questa percezione quando dice “se non mi faccio qualcosa nessuno mi chiede niente”; mentre Siddharta dirà: “Non mi resti che tu!”- invocando Dio.
Il paradosso qui è che più si Siddharta dimostra bravo, autonomo, pronto per gli altri, meno gli altri crederanno che lui ha bisogno di loro; più Siddharta mette davanti alle loro responsabilità i genitori, che pure amano i figli ma non riescono a prendersi cura di loro, per questi si scaricheranno colpe e assoluzioni l’un l’altra.
La ricerca dell’altro sembra spinta dall’urgenza del bisogno imminente piuttosto che dal desiderio di incontrarsi per guardarsi dentro e guardare l’altro. Ma chi si avvicinerà con interesse a Siddharta gli farà aprire il cuore.
Chi riuscirà a cogliere i suoi veri bisogni creerà una relazione di sintonia con lui.
La scelta di Siddharta è in quel volo leggero per aria oltre il cancello delle angosce e delle colpe e verso il desiderio di un amore adolescente che lo aspetta.
Silvia Barbaro (Psicologa)

La responsabilità

Nel film sono raccontate le storie di famiglie di un nuovo periodo storico di cui non ne sono ancora stati fissati i valori.
Della famiglia non è stato chiarito che cosa dovrà essere annullato, modificato o strutturato. Sono cambiate le condizioni materiali e sociali e quindi un diverso modo di vivere i bisogni e le relazioni. Le figure genitoriali sono ritagliate in modo impietoso e assai efficace. Non c’è dato conoscere la storia precedente dei personaggi (se non per qualche accenno appena tratteggiato). Difficile non cogliere le carenze di ciascuno di loro. Quello che appare è un quadro in cui mancano l’autonomia adulta, la consapevolezza del sé e dei propri bisogni e quindi la capacità di scelta. Questo narcisismo immaturo produce inadeguatezza e difficoltà ad amare gli altri. E’ un amore incompleto come loro stessi.
Una caratteristica comune sembra essere l’incapacità dei protagonisti adulti ad assumersi responsabilità sulla loro vita e quindi nelle decisioni riguardanti i figli.
Siddharta nella sua immaturità (di diritto) ci mostra invece come ha imparato ad aiutarsi e ad aiutare. Lo fa, suo malgrado, quando deve occuparsi della sorella, questa, è vissuta in un primo tempo con sopportazione e come un compito doveroso, ma ad un certo punto diventa una persona, un “altro” che capisce tutto, anche se è “qualche chilo”. Uscendo dal suo narcisismo, Siddharta entra in una relazione reale, riesce a farsi carico dell’altro, ad aiutare veramente, riesce cioè ad amare da adulto. Nessuno glielo ordina, potrebbe restare quello che è, invece compie un atto maturo: si assume la responsabilità, qualunque cosa accada.
Da qualunque parte la si capovolga, la responsabilità implica sempre una scelta, o la scelta implica sempre una responsabilità. E’ perciò una sofferenza sempre. A qualcosa dobbiamo rinunciare. Solo i bambini, proprio perché pieni di beata onnipotenza, vorrebbero tutto e anche subito.
Ancorata all’età dell’onnipotenza è l’avidità la parte corrispondente nell’adulto. E’ l’elemento che spesso penalizza e paralizza le decisioni o che le fa assumere guardando solo all’immediato senza riflettere sulle conseguenze. Questo vale in molte scelte della vita.
Anche avere figli è bello, ma non è sufficiente solo amarli, è impegnativo allevarli in modo responsabile.
Come mai non occorre nessuna preparazione per compiere un atto di così alta rilevanza sociale? “Ma chi ve l’ha chiesto” chiede Siddharta ai genitori.
Ma torniamo alla scelta, affinché sia vantaggiosa, è implicito un intervento semi automatico che tutti noi facciamo senza rendercene conto: ed è quello relativo all’entrata in contatto con noi stessi e con il nostro bisogno “reale”. Quando questa operazione funziona, possiamo decidere per il meglio e ci sentiamo soddisfatti.
Il problema della responsabilità è quindi riconducibile a quella che abbiamo nei nostri confronti, in altre parole al nostro modo di percepire i bisogni, all’equilibrio e alla dialettica che si forma al nostro interno.
Come facciamo e decidere per noi e per il meglio se non conosciamo bene noi stessi?
Siamo certi che quello che crediamo (o ci dicono) essere i nostri desideri corrispondono ai nostri bisogni?
La nostra dialettica interna funziona in un giusto equilibrio o è distorta?
Sono domande alle quali occorre al più presto cercare di dare una risposta o meglio occorre, porsi il problema, cercar dentro, anche da soli.
Alcuni suggerimenti li posso dare; qualunque età abbiate, sicuramente un po’ d’esperienza di vita l’avrete e di certo alcuni effetti del vostro interagire con il mondo che vi circonda (gli altri) li avrete.
Per ora potrete solo osservare le conseguenze delle vostre dinamiche, (purtroppo parlo sempre di quelle problematiche). Non è difficile, dovrete ascoltare voi stessi, e dopo ogni decisione, valutare il senso d’appagamento o l’insoddisfazione.
Se quest’ultima è frequente e costante vale la pena di riflettere. O ancora se vi accorgete alla fine di ogni storia, amore, amicizia, situazione relazionale in genere, di ritrovarvi con le stesse sensazioni di disagio, confermandovi le stesse avvilenti conclusioni su di voi o sul mondo che vi circonda, bisogna allora ammettersi che nello scambio dialettico interno c’è una discrepanza fra ciò che si voleva ottenere e il risultato ottenuto. C’è qualcosa da rivedere e su cui riflettere.
Negli ultimi fotogrammi del film, Siddharta, salta e vola verso la scelta del suo avvenire, verso i suo bisogni.
Nonostante la drammaticità della storia egli viene a percepirli in modo corretto.
Purtroppo non è sempre così, ma è motivo di speranza (e poi nella trama è liberatorio).
Se ricordate alcuni attimi prima di decidere egli guarda in modo particolare i genitori e la sorella, sta per assumersi la responsabilità per la sua vita. In quella frazione di secondi il suo dialogo interno deve essere stato drammatico ma chiaro.
Quel momento condensato, tutti noi (di una certa età) l’abbiamo vissuto e l’abbiamo chiaro nei ricordi.
A quell’appuntamento, (che poi saranno tanti), è importante arrivarci il prima possibile ed allenati. Ci si allena instaurando da subito una sorta di “politica democratica interiore”. Un dialogo, cioè un dibattito, (anche un conflitto) che non estrometta nessuno o nessuna nostra parte.
La relazione al nostro interno passa attraverso un’educazione; gli strumenti naturalmente sono forniti dall’esterno in un’interazione dinamica e funzionale. I genitori sono i primi responsabili e la scuola come tutti gli ambiti formativi può favorirne il recupero e l’attivazione.
Q questo proposito ricordo del film un particolare interessante e simpatico; Siddharta che si costruisce un genitore ausiliario mediante il computer, con diario e predica incorporate. E’ ciò che gli serve e che manca nella sua pseudo-famiglia alternativa e cioè un genitore che sia tale e che possa a suo tempo diventare una parte interna con la quale poter dialogare in modo corretto.
Mi riferisco per l’esattezza alla “funzione paterna”, e cioè a quella difficile combinazione di dosaggio relazionale in cui questa figura, poi, sia definita e chiara. Un “paterno” affinché sia tale, non è obbligatorio sia svolto da un padre naturale, ma certo che è che non significa essere amico, fratello o madre. Tutti possiamo svolgere questo ruolo, purché quella “funzione” sia chiara e definita.
Anche nella scuola si vivono tante “funzioni”, quella paterna è da rivalutare, purché sia democratica.
Giorgio Minelli (Psicologo e Psicoterapeuta)

ALCUNE RIFLESSIONI PSICOLOGICHE SUL FILM

Sono molte le suggestioni che questo film può suscitare in chi usa la psicologia come chiave di interpretazione della realtà: il destino di questo ragazzino che deve imparare a vivere e, ancor prima, a sopravvivere in un universo di adulti complesso, contraddittorio spesso incomprensibile ci ricorda le vicissitudini che ogni essere umano, in fondo, deve attraversare per diventare grande, adulto fra gli adulti.
La paura, il dolore, la solitudine di Siddharta diventano una sorta di rappresentazione universale della sofferenza e della pena che ogni adolescente deve vivere in questa strana età di passaggio; uno specchio che riflette l’andirivieni adolescenziale fra bisogni emotivi profondi e conquiste evolutive.
Sono, dunque, le tematiche del film che si offrono ad una lettura psicologica; noi preferiamo soffermarci solo su alcuni aspetti del mondo di Siddharta: la relazione fra lui e i suoi genitori, quella con la sorellina, e, ultimo, con gli adulti che incontra nel suo girovagare per aiutarla.

Siddharta alla ricerca della sua identità

Appena, nel film, sentiamo pronunciare il nome di questo tenero e contemporaneamente duro ragazzino del 2000, Siddharta, tutti sorridiamo pensando alla stranezza di questa scelta e di chi l’ha fatta. Le motivazioni, ironiche, ci parlano di un brevissimo innamoramento della madre per il buddismo, sufficiente per chiamare così il figlio.
In realtà il nome ci fa già entrare nell’universo psicologico della madre di Siddharta: quali sogni, quali fantasie devono avere attraversato il cuore e la mente di questa ragazza per dare al proprio bimbo questo nome? Ci deve essere stato, nella madre, una ricerca di assoluto, di onnipotenza, un bisogno di plasmare, con il nome, un destino grandioso per il figlio, un destino di perfezione e felicità. E’ pensare che questa fantasia di onnipotenza non può che essere legata d una percezione già presente nella madre, nonostante la giovane età, di essere una perdente, di sentire il proprio destino come doloroso e fallimentare. Solo la vita di Siddharta può dar senso e valore a quello della madre, che ne diventa il riscatto. Non a caso quando lei, prima di morire, parla del figlio è l’unica a delinearne le caratteristiche positive, ad essere certa della sua sincerità, della autenticità dei suoi sentimenti: quel valore che gli aveva attribuito, con il nome, non è andato disperso evidentemente, ma è diventato piccolo e importante patrimonio trasmesso dalla madre al figlio che forse lo aiuterà, davvero, a vivere una vita migliore.
Le peregrinazioni di Siddharta, ci spingono a considerare il ragazzino, più che un metodo della saggezza buddista, una sorta di piccolo Ulisse che, per trovare se stesso, la propria identità, per potere capire “chi sono io” deve muoversi fra mille pericoli e mille difficoltà: il mondo degli adulti, potenti e deboli, contemporaneamente, non gli offre alcun approdo sicuro, alcuna vicinanza autentica.
Dunque Siddharta è nato da genitori giovani, immaturi, pieni di contraddizioni e paure, pensiamo noi, esaltati dal gioco di avere un bambino, di “fare i grandi” senza alcuna consapevolezza reale di ciò che comporta questa scelta-non scelta. E così ben presto, si capisce dal film, questi due ragazzini si sono lasciati, seguendo orbite esistenziali diverse ma altrettanto incomplete e dolorose.
La madre è diventata (o è rimasta) tossicodipendente: un altro compagno – di buona famiglia ma altrettanto confuso e sofferente – una dolcissima bambina, non sono riusciti, evidentemente a dare significato alla sua vita, a farla scegliere di rinunciare ad una dipendenza che, sappiamo, ha radici psicologiche lontane e profonde.
Il padre ci appare solo e lontano ormai dalla realtà; insegue i propri sogni delusi di far un film, in guerra con i fantasmi dei nemici di tanti anni fa. Nei contatti con Siddharta lo vediamo parlare in maniere confabulatoria, esaltata, incapace di ascoltare il figlio, di riconoscerlo come persona.
E’ in questo contesto che avviene, quasi impercettibile, il dramma che, Siddharta da solo, cercherà di affrontare: la sorellina, Domitilla, si punge con una siringa usata dalla madre, esplorando, come fanno tutti i bambini, nella sua borsetta. Siddharta che accudisce la bambina con una disponibilità che a lui, gli adulti, non riservano, se ne accorge subito e, informato – come tutti i ragazzini – dai media sa che deve sottoporre la bambina ad accertamenti sanitari.
Comincia così la sua odissea.

Siddharta e il mondo degli adulti

Siddharta sa di essere - per la legge degli adulti - ancora un bambino, sottoposto all’autorità - si fa per dire - dei genitori. Sa che se chiedesse aiuto per Domitilla scatterebbero immediatamente indagini e controlli che finirebbero per coinvolgere la madre e crearle ulteriori difficoltà.
Così mente, nasconde, fuorvia tutti gli adulti del “sistema sanitario nazionale” pur di riuscire a verificare se Domitilla è stata contagiata dalla siringa della madre e sapere cosa si può fare per lei. Per Siddharta ogni contatto con il mondo degli adulti è minaccioso, deve difendersi, fuggire alle loro domande, non ci si può fidare di loro neppure quando hanno il volto di una giovane psicologa che pure riesce a scalfire il muro di diffidenza del ragazzino.
Tutto precipita quando Siddharta deve prelevare le analisi che con tanta difficoltà era riuscito a fare: per sfuggire agli adulti che lo inseguono si lancia dalla finestra e viene arrestato.
E’ un momento duro per il ragazzino, viene incolpato di mille colpe, tutti gli sono contro, perfino la sorellina gli viene allontanata perché è un irresponsabile. Ma Siddharta tace, non si difende, non accusa: ha un segreto che lo angoscia, la salute della sorella e non ne può parlare.
Solo con il padre, in automobile, si lascia andare e parla del suo dolore, della sua disperazione.
E’ un momento, potremmo dire, di profonda crisi depressiva: Siddharta si sente invaso da emozioni negative, parla di “schifezze” interiori che si vedono, che non si possono più nascondere. Il mondo interiore di Siddharta è pieno di sofferenza, di rabbia, di paura ma anche di solitudine: nessun adulto importante per lui, lo capisce e lo consola. Il padre, quando Siddharta parla, è già immerso nei suoi pensieri e liquida le inquietudini del figlio con un generico e distratto “mi fido di te”.
E’ importante notare quanto questa frase positiva, in realtà, non possa che avere l’effetto di ricacciare Siddharta nella sua solitudine, negando l’esistenza stessa del suo dolore e obbligandolo a fare quello che ha sempre fatto: cavarsela da solo, andare avanti “come se fosse già grande” e dunque indurirsi per non lasciarsi andare alla disperazione.
La psicologia dell’infanzia ci ha ben spiegato cosa succede ai bambini quando non possono contare sull’”attaccamento” sicuro di almeno un genitore: cercano, come Siddharta, di farcela da soli “adultizzandosi” e non chiedendo più sicurezza e vicinanza ma, al contrario, modellandosi sui bisogni degli adulti, cercando di risolvere, da soli, i problemi che si presentano. Sappiamo, però, che questo percorso evolutivo è ad alto rischio psicopatologico: le carenze sperimentate vanno a ledere la costruzione della personalità, il livello di autostima e fiducia in se stessi, la capacità di instaurare relazioni positive ecc. di compromettere, in poche parole, il destino stesso di una persona.
Così Siddharta ancora bambino ci sembra più responsabile e maturo degli adulti che lo circondano, più saggio e determinato di chi, per età, lo dovrebbe essere: ma il carico emotivo che grava sulle sue spalle è enorme, troppo pesante, in realtà, da sopportare.
Finalmente la madre capisce ciò che nessuno aveva compreso: Siddharta, suo figlio, non è un bugiardo, se ha fatto quelle cose un motivo ci deve essere.
La madre, dunque, per una frazione di tempo breve ma importante e guarda il figlio e lo vede, nel senso profondo del termine: riconosce la sua pena, la sua sofferenza e ristabilisce con lui un contatto emotivo. Riconosce, forse per la prima volta, tutto il disagio e le mancanze che il bambino ha dovuto subire così come ammette la sua grave responsabilità nel contagio della bambina: la madre per i suoi figli cercherà, senza riuscirci, di riscattare la sua vita, di cambiare per loro.
Tenterà una insopportabile disintossicazione ma l’oppressione di chi la circonda, la insopportabilità - presumibilmente- dei sensi di colpa e chissà quante altre cose, la spingono nuovamente a cercare ciò che le consente di trovare un po’ di pace: la droga. E di morirne.

Siddharta e Domitilla

Il rapporto di Siddharta con Domitilla rappresenta, senz’altro, la parte più tenera e delicata del film. Il legame fra il ragazzino e la bambina, viene tratteggiato con moltissima sensibilità: è un vincolo affettivo profondo, intenso, sottratto al mondo degli adulti e, dunque, libero da qualunque condizionamento. La fiducia di Domitilla nei confronti del fratello è assoluta, con lui si sente protetta, sicura.
E Siddharta conosce Domitilla come nessun altro, neppure la madre. Riconosce le paure della bambina, si rende conto che “non le sfugge niente”, “non la si può imbrogliare”, “capisce tutto, anche se non dice nulla”. E con lui la bambina si lascia andare ai suoi pensieri sulla morte, al suo malessere “mi scoppia la testa”, al suo bisogno di avere la mamma accanto a sé.
E’ nel rapporto con Domitilla che Siddharta - finalmente- può riconoscere anche le proprie paure, le proprie debolezze. Parlando della sorella lascia affiorare il dolore, riesce a rinunciare alla corazza che gli permette di affrontare, senza soccombere, la durezza della vita e piange come non ha mai fatto in nessun altro momento del film tollerando la propria vulnerabilità.
Sappiamo che la relazione fra fratelli è qualcosa di speciale, carica di elementi di identificazioni reciproca: ogni fratello/sorella si specchia nell’altro, riconosce i tratti di uguaglianza ma anche di diversità. E’ nel rapporto fra i fratelli vi è posto per la protezione, l’aiuto, il sostegno reciproco e, quando il divario di età è notevole, il farsi carico del più piccolo da parte del fratello/sorella maggiore. Soprattutto quando i genitori sono in difficoltà nell’accudire adeguatamente i figli, per mille diversi motivi (separazione, morti, malattie, tossicodipendenze, conflittualità gravi ecc.), i fratelli possono svolgere, almeno in parte, funzioni genitoriali sostitutive e, dunque, avere un ruolo decisivo nella crescita psicologica di ciascuno.
E’ questa la funzione che Siddharta svolge per Domitilla: in un universo di adulti fragili, confusi, contradditori, il fratello diventa per la bimba l’unico punto di riferimento stabile e sicuro, una sorta di stella polare che la guida nella sua crescita. E gli adulti, pur nella loro ambiguità, riconoscono a Siddharta il ruolo che riveste per Domitilla: lui “sa come prenderla” e ancora una volta sarà lui a dirle che la madre è morta, a trovare le parole che loro non sanno trovare.
Ma finalmente, nella conclusione del film, Siddharta riesce a trovare la forza di spezzare quel processo di adultizzazione che lo inchioda e gli impedisce di occuparsi di sé.
All’uscita della scuola di fronte ai due “padri” che con Domitilla lo aspettano, Siddharta riuscirà, per la prima volta, a sottrarsi e a perseguire il suo sogno d’amore con la compagna di scuola che, finalmente, si è accorta di lui. L’adolescenza, per fortuna, arriva sempre!
Ornella Vinello (Psicologa – Psicoterapeuta)

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