TITULO ORIGINAL L'industriale
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 94 min.
DIRECCION Giuliano Montaldo
GUION Giuliano Montaldo, Andrea Purgatori (Historia: Giuliano Montaldo, Vera Pescarolo)
MUSICA Andrea Morricone
FOTOGRAFIA Arnaldo Catinari
PREMIOS 2011: Nominada Premios David di Donatello: Mejor diseño de producción
REPARTO Pierfrancesco Favino, Carolina Crescentini, Eduard Gabia, Francesco Scianna, Elena Di Cioccio, Elisabetta Piccolomini, Andrea Tidona, Mauro Pirovano, Giovanni Bissaca, Roberto Alpi
PRODUCTORA BiBi Film / Rai Cinema / Film Commission Torino-Piemonte
GENERO Drama
SINOPSIS Nicola es un hombre de mediana edad propietario de una fábrica heredada de su padre y que se encuentra al borde de la quiebra. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Inglés)
Gabriel Garcìa Marquez scrisse, nel 1985, il celebre L’amore al tempo del colera. Venticinque anni dopo, nel contesto economico in cui l’Italia sembra affogare, il regista Giuliano Montaldo (L’Agnese va a morire, I demoni di San Pietroburgo) sembra voler scrivere una sorta di “l’amore ai tempi della crisi”. L’Industriale – presentato alla VI edizione del Festival Internazionale del Film di Roma – è, come suggerisce il titolo stesso, l’epopea di un industriale, un uomo disperato che, nel tentativo di salvare la fabbrica ereditata dal padre, dovrà affrontare anche i problemi di un matrimonio in cui l’amore sembra essersi esaurito.
Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino) è un uomo d’affari di quarant’anni, che si vede costretto a fronteggiare la crisi economica senza averne i mezzi; la sua fabbrica è sull’orlo del fallimento, e la banca non può più aiutarlo con dei prestiti che, almeno, gli permetterebbero di pagare gli stipendi e di avere un po’ più di tempo per cercare di convincere una cordata tedesca ad entrare in affari, salvando così il futuro della fabbrica e dei suoi operai. Orgoglioso e testardo, Nicola non accetta l’aiuto di sua suocera Beatrice (Elisabetta Piccolomini), donna benestante che, tuttavia, non ha mai tenuto nascosto il suo astio nei confronti del genero. Come se non bastasse, Nicola deve anche vedersela con l’improvvisa freddezza della moglie Laura (Carolina Crescentini), sempre più affascinata dal parcheggiatore/artista Gabriel (Eduard Gabia).
Non sempre il talento interpretativo di Pierfrancesco Favino può bastare a salvare dalla mediocrità un’intera pellicola. Ci aveva già provato con Baciami Ancora, regalando il personaggio più riuscito del film; con L’Industriale l’attore romano restituisce l’immagine nitida di un uomo disperato e sconfitto, simile a quelli di cui sono piene le pagine dei nostri giornali. Tuttavia, questo grande sforzo istrionico viene sminuito da un contorno mediocre, fatto di personaggi appena abbozzati e di una recitazione monocorde, se non addirittura insipida. La Torino di Montaldo, lungi dall’essere quel sfondo tentacolare che il regista stesso si auspicava, è una macchia grigia su cui non splende mai il sole e che, se da una parte può rispecchiarsi nell’animo miserabile del protagonista, dall’altra risulta solo un set come un altro, un luogo stereotipato, dove i cliché si sovrappongono a dialoghi al limite della sopportazione. L’universo diegetico creato da Montaldo – qui in veste di sceneggiatore, oltre che di regista – è un mondo che, seppur illuminato da una fotografia che ben si amalgama alle vicende narrate, appare noioso e lontano da quelle intenzioni di denuncia che il regista sembra voler adottare per dare una visione della crisi degli imprenditori italiani.
Erika Pomella
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Il quarantenne Nicola (Pierfrancesco Favino), presidente di una fabbrica torinese ereditata da suo padre, è in crisi: l'azienda è sull'orlo del fallimento mentre cresce in parallelo l'allontanamento di sua moglie Laura (Carolina Crescentini). Deciso a non lasciarsi andare allo sconforto, cercherà con ogni mezzo di recuperare i due aspetti principali della sua vita, ma dovrà forse lasciarsi alle spalle più di uno scrupolo etico.
Chi si aspetta un duro attacco al cinismo delle banche contro la sana piccola impresa italiana rischia di trovarsi deluso e di sminuire il lavoro svolto da Giuliano Montaldo e Andrea Purgatori in sceneggiatura: la freddezza nel mondo della finanza non viene di certo negata ("Noi non scommettiamo mai", dice il direttore di banca al Nicola in cerca di prestiti senza garanzie), ma il protagonista non è proprio all'altezza dei valori di cui si vorrebbe rendere alfiere. Un pericoloso concorso di responsabilità nel declino di un paese. Nicola "non molla mai", ma il suo abbarbicarsi alla fine di un mondo denuncia anche l'incapacità di scorgerne un altro all'orizzonte, enfatizzata da una spietata fotografia desaturata di Arnaldo Catinari.
Di recente Emanuele Crialese in Terraferma ci ha raccontato il crollo dell'economia legata alla pesca, concentrandosi su una classe sociale più bassa di quella raffigurata da Giuliano Montaldo in L'industriale. A compromettere però l'assetto di una società, che si trascina nella difficoltà di pensare diversamente di fronte a un mondo mutato, ci sono gli stessi elementi: l'eredità dei padri vissuta acriticamente (vedasi il rimprovero dell'impiegato veterano Saverio all'ostinato Nicola), la presenza degli immigrati vista come minaccia, la tentazione delle soluzioni facili ma illecite.
Da questo punto di vista il fattore sentimentale melodrammatico non è gratuito, ma necessario a legare le problematiche pubbliche alle private: se qualche cedimento al didascalismo si può notare, specialmente all'inizio, è da lodare la creazione di un legame con un personaggio sfaccettato, ambiguo ma completo che Pierfrancesco Favino rende, ancora una volta, al meglio.
Per accompagnarlo in un viaggio all'inferno che ha il merito, considerati gli argomenti trattati, di concedere allo spettatore l'attivazione di un pensiero critico e non di un tifo passivo.
Domenico Misciagna
Chi non dà lavoro, non fa l'amore
Il quarantenne Nicola è proprietario di una fabbrica sull’orlo del fallimento di una Torino nebbiosa e notturna, immersa nella grande crisi economica che soffoca tutto il paese. Ma è orgoglioso, tenace. Ha deciso di risolvere i suoi problemi senza farsi scrupoli. Sua moglie Laura è sempre più lontana, ma Nicola non fa nulla per colmare la distanza che ormai li separa. Assediato dagli operai che lo pressano per conoscere il loro destino, Nicola avverte che qualcosa sta turbando l’unica certezza che gli è rimasta: il matrimonio. Ma invece di aprirsi con Laura comincia a sospettare di lei e a seguirla di nascosto. Tutto precipita. Nicola annaspa e tira fuori il peggio di sé. Poi tutto sembra tornare a posto: l’azienda, il matrimonio, il successo sociale. Ma l’uomo ha più di un segreto da nascondere e il ritratto sociale prende sfumature dostoevskijane. [sinossi]
Leggendo la trama de L’industriale già si potrebbe riflettere su qualcosa di fondamentale. La questione sociale e la manichea separazione tra servi e padroni, proletari e capitalisti, è ancora una dimensione attualissima della realtà in cui, pur variando le situazioni per forza di cose (la crisi ora come ora non permette a molte grandi aziende nemmeno di essere padrone, asservite anch’esse a qualcun altro, ovvero le banche e gli istituti di credito), permangono invece intatte la questione sociale e lo sfruttamento lavorativo.
La scommessa di Montaldo, classe 1930 ricordiamolo, di riuscire a parlare della crisi di una grossa azienda al mondo d’oggi usando personaggi e contrapposizioni che affollavano molto cinema italiano anni fa (d’impegno e non) è dunque almeno in questo riuscita. Ciò che viene in mente però a livello filmico è il come rendere stimolante tutto questo rispetto a una società radicalmente mutata a livello ideologico, di linguaggio, di fruizione del cinema e dell’arte. Un esempio di un film che riprende dai maestri per poi inserire linfa nuova a livello di genere, profondità dei personaggi, lavoro meramente di ricerca sull’attuale è senz’altro Il gioiellino di Andrea Molaioli. Si potrà obiettare che Montaldo racconta qualcosa di più romanzato, non aiutato da esatti eventi della realtà come guida, e dunque che il paragone non regga, eppure i punti di contatto non sono pochi: dal crollo di un’azienda storica cittadina, radicata nel territorio, alla descrizione di ambienti alto borghesi in cui gli operai sono visti da lontano, di riflesso. Eppure ciò che risulta efficace nel racconto di Molaioli, qui appare invece intrappolato in dinamiche, soprattutto di scrittura, poi di messinscena che finiscono per rendere il film barocco, decadente, infine quasi elogiativo di un mondo di agiatezza, macchinoni, enormi ville ottocentesche, maggiordomi, ricchi banchetti, mentre invece nei contenuti si vorrebbe condannare tutto ciò. Oltretutto, pur con una certa raffinatezza a livello visivo è difficile evitare il terreno della fiction. Nella descrizione di un classico triangoloL'industriale_testo borghese: lui e lei, coppia ricca e in crisi, e l’amante povero di lei, Montaldo non riesce ad evitare una stereotipata parata di palpiti del cuore, cerebrali incomprensioni di coppia, il tutto aggravato da un certo gusto per l’amor cortese, che a dirla tutta più che sul già visto si proietta verso l’assurdo. L’innamorato di umili origini, in questo caso un garagista romeno, non è il classico sfogo erotico o passionale per una moglie frustrata e repressa quanto piuttosto un anelito romantico, completamente platonico, che raggiunge il surreale quando si scorge il ragazzo lavare l’auto di lei decantando il proprio amore con il tubo dell’acqua in mano e musica classica che ne accompagna gli “aggraziati” movimenti. Gli stessi Favino e Crescentini, ottimi interpreti anche qui, ce la mettono tutta per non finire vittime del sentimentalismo, ma non riescono a sfuggire alle maglie di una scrittura poco efficace. Il punto di vista di fondo di Montaldo è invece interessante: ovvero raccontare la crisi attraverso uno sguardo, quello di Favino, profondamente egoista. Egoista perché si mette in testa di salvare l’azienda non per scelta ideologica, senso etico o motivi di affetto per i lavoratori, quanto invece per non rimanere tagliato fuori da un mondo dorato e dunque rischiare di finire proprio nella grande massa dei non privilegiati. Una casta quella che viene descritta ne L’industriale, in cui si capisce benissimo che una moglie, anche se priva di cinismo o se vogliamo sinistroide come pare essere la Crescentini, è capace di lasciare l’amato marito se questi rischia di perdere il potere e i soldi che ha. Una scelta d’intenti dunque che può risultare azzeccata per il regista de Il Giocattolo (forse il suo film migliore, datato 1979), ma che però appunto diventa ambigua nei modi di raccontare. Ci può stare, ripetiamo, la riflessione su un personaggio tragicamente ridicolo come l’industriale protagonista del film, ma si ha l’impressione che il mancato realismo della pellicola sia in realtà un alibi per proteggere i personaggi stessi da una vera presa di coscienza, che poteva invece accadere se si fosse concesso qualcosa in più alla realtà esterna al mondo dei ricchi, anch’essa invece nei pochi specchietti che la riflettono, affollata di stereotipi per descrivere la natura popolare e urbana di Torino.
Ad accrescere eccessivamente l’antirealismo ma almeno evitando la percezione visiva, sciatta della fiction televisiva, è una strana scelta fotografica. Le immagini de L’industriale sono infatti digitalmente ritoccate e private quasi completamente del colore, grigie come per tradizione è il colore predominante di Torino. Il film sembra tutto girato come fosse perennemente sera. Una scelta eccessiva, che dona artificiosa decadenza all’opera, ma che almeno si distingue per personalità rispetto a molte pellicole che possono avere temi simili e che spesso si assomigliano troppo anche nelle immagini.
Valerio Ceddia
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