Dopo divorzieremo
AÑO
1940
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español, Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Nunzio Malasomma
GUIÓN
Nunzio Malasomma, Sergio Amidei, Alessandro De Stefani.
MÚSICA
Cesare A. Bixio, Felice Montagnini, Enzio Carabella
FOTOGRAFÍA
Alberto Fusi, Jaroslav Blazek (B&W)
REPARTO
Amedeo Nazzari, Vivi Gioi, Lia Orlandini, Lilia Silvi, Noëlle Norman, Monique Thibaut, Mignon Cocco, Regina Bianchi, Mara Landi, Guglielmo Sinaz, Stefano Sibaldi, Giuseppe Rinaldi, Cesare Fantoni, Mario Besesti
PRODUCTORA
Excelsa Films
GÉNERO
Comedia
Una ragazza, che è iscritta ad una specie di collegio-pensione ove sono alloggiate le impiegate di una grande azienda americana, per frustrare la proibizione regolamentare, che vieta alle pensionanti di ricevere conoscenze maschili, persuade il proprio fidanzato - che è stato sorpreso nella di lei stanza - a sposare "pro-forma" la giovane cassiera di un locale notturno che, essendo ospite delle impiegate, non è tenuta al regolamento. Alla fine un divorzio rimetterà a posto le cose. Ma la convivenza, sia pure in tali condizioni, con la moglie per burla, influisce sul giovanotto - piuttosto svogliato e scapestrato - e lo appassiona al lavoro. La vicenda si conchiude con la trasformazione del finto matrimonio in matrimonio vero, con buona
"(...) Inscenato elegantemente e piacevolmente interpretato da Amedeo Nazzari e Vivi Gioi, il film si ambienta in una America caramellata e disinvolta e ci presenta un'altra variazione del tema matrimonio in bianco (...) Il film è piacevole, scorre con garbo, si ravviva di trovatine e di battute azzeccate, ed è la rivelazione di Lilia Silvi (...)". (M. Gromo, "La Stampa", 1/121/1940)
https://www.cinematografo.it/cinedatabase/film/dopo-divorzieremo/1833/
L’Italia è in guerra da pochi mesi e gli USA vi entreranno solo tra un anno e mezzo; tuttavia gli Stati Uniti sono la gigantesca retrovia della Gran Bretagna e da quel paese bisogna ora prendere radicalmente le distanze, dopo avere con esso “flirtato” lungamente fino alla metà degli anni trenta (e oltre). Ecco allora che il cinema si preoccupa di inventarsi un universo sociale americano tirannico e amorale, dominato da donne “maschili”, che hanno rifiutato la maternità, che lavorano come bestie, portano i pantaloni e riescono perfino a comandare l’altro sesso con grande disinvoltura (Nazzari è uno spiantato, pronto a far qualunque cosa per un pasto e un tetto sicuro; per tutto il film prende ordini dalle due ragazze, ed esegue senza fiatare, limitandosi a qualche sommesso brontolio). Insomma la donna lavoratrice dei grandi magazzini americani si colloca agli antipodi del modello femminile fascista e questa pellicola modesta ma significativa (interpretata comunque in modo brillante) ricorda agli Italiani che gli Usa (per ora solo potenziali nemici dell’Asse) non rappresentano una nazione nel senso italiano del termine e sono piuttosto una grande fabbrica a cielo aperto (anche se di cielo, qua non se ne vede neanche uno spicchio, trattandosi di un film interamente girato in studio). La donna americana dunque appare prigioniera di un ruolo meramente produttivo, all’interno di un sistema sociale disgregato, afflitto dall’avidità e incapace di trasformarsi in comunità nazionale.
Sebbene il film sia un prevedibile compitino di propaganda contro lo “stile decadente” delle “vetuste” democrazie, accettabile nelle sue assurdità solo da un pubblico estremamente ingenuo, d’altro canto la visione di una società americana ingabbiata entro l’unica prospettica del rendimento economico e priva di un’etica solida ovvero capace di dominare la volubilità delle passioni (nelle sale italiane degli anni quaranta, il divorzio viene percepito come una pratica scandalosa e illogica), coglie parzialmente nel segno. Sono certamente pochissimi gli spettatori di Dopo divorzieremo che sono in grado, in quegli ultimi mesi del 1940, di intuire che quella paranoia economicista e quel modello femminile disinibito e capriccioso sarebbero diventati, negli ultimi decenni del Novecento, una realtà anche europea.
Nunzio Malasomma, nativo di Caserta (1894), dopo avere lavorato come giornalista e come critico cinematografico tra la fine degli anni dieci e i primi anni venti, esordisce alla regia nel 1923. Dal 1924 al 1930 firma numerose regie in Germania mentre negli anni trenta lavora in Italia, distinguendosi soprattutto nel genere della commedia brillante.
L’anno seguente Malasomma ripropone l’accoppiata Amedeo Nazzari-Lilia Salvi in Scampolo (ott. 1941; 85 min.) una modesta commedia sentimentale (tratta dall’omonima commedia, 1915, di Dario Niccodemi) priva di allusioni politiche e sociali. In una Roma degli anni dieci (numerose le sequenze girate in luoghi caratteristici) una povera giovinetta soprannominata Scampolo (L. Salvi) vive per strada e guadagna qualche soldo consegnando a domicilio biancheria lavata; incontra così un brillante architetto (A. Nazzari) che convive con un’amante opportunista e brontolona (Luisa Garella). Riuscirà dapprima a farsi assumere come cameriera (combinando guai a ripetizione) ed, infine, a conquistare il proprio datore di lavoro.
Come si nota, Malasomma ha sostanzialmente rovesciato la situazione iniziale di Dopo divorzieremo. La prevedibile narrazione però non offre (a parte i già citati esterni) alcun elemento di interesse: la Salvi bamboleggia oltre il consentito, Nazzari interpreta il consueto stereotipo dell’uomo di valore in cerca di approvazione, le sue vicende lavorative (un importante progetto inviato ad un concorso) sono pretestuose e il carattere roseo e zuccheroso dell’insieme diviene presto stucchevole.
Della commedia di Niccodemi, interpretata con grande successo da Dina Galli nella seconda metà degli anni dieci, esisteva già una versione filmica, firmata da Augusto Genina nel 1928. In seguito compariranno Scampolo 53 (G. Bianchi, con Maria Fiore) e. nel 1957. una versione tedesca diretta da Alfred Weinenmann con Romy Schneider, presentata nella penisola con il titolo fuorviante Sissi ad Ischia.
In seguito Malasomma gira un secondo film di propaganda antiamericana, Giungla (gennaio 1942; 97 min.), nel quale si ribadisce che l’universo americano è luogo dell’ingiustizia e della illibertà. La pellicola, basata su un soggetto di A.R.Franck sceneggiato dal regista e dal solito Amidei, racconta una strampalata vicenda ambientata in un’isola africana colonizzata dagli inglesi nella quale un’epidemia malarica miete vittime a ripetizione. In un avamposto nella giungla, tenuto in scacco da una tribù di selvaggi che ammazzano, più o meno, chiunque vi si rechi, le autorità incredibilmente sciocche continuano a spedirvi unità mediche indifese. Nell’isola giunge un nuovo medico, americano, che vive sotto falso nome in quanto ricercato per omicidio negli USA (aveva ammazzato il docente universitario di cui era assistente). Qui ritrova la fidanzata (Vivi Gioi) di un tempo e un antico rivale: i due medici (gli atori tedeschi Rodolfo Fernau e Alberto Schönhals) partono per la giungla, riscono a tener testa ai selvaggi fino a quando le autorità locali non vi giungono per arrestare l’americano (nel frattempo scoperto). A quel punto il capotribù, che si fidava solo di quel medico, assedia i nuovi venuti e li minaccia di morte. Nel lieto fine “a sorpresa” si scopre che il protagonista è innocente: aveva ucciso solo per legittima difesa, durante una colluttazione con il professore che si era appropriato dei suoi lavori scientifici e che lo minacciava con una pistola.
In questo stravagante film - girato anche in versione tedesca, affinché pure il popolo germanico potesse rendersi conto delle malvagità che si annidavano tra le aule universitarie d’oltre Atlantico - lo stile riprende l’espressionismo tedesco o, se si preferisce, il noir americano che da quest’ultimo, in parte, deriva. In un contesto claustrofobico e animato da luci contrastate e violente, si consuma questo dramma convenzionale, nel quale i protagonisti vivono oppressi da colpe commesse in un misterioso passato. Così il recente stile filmico americano viene utilizzato proprio per criticare l’America, i suoi egoismi e le sue presunte ingiustizie.
Il principale elemento di interesse consiste dunque nella critica al sistema angloamericano: i colonialisti inglesi dell’isola sono gente inetta mentre il sistema educativo americano è in mano a professori disonesti i quali rubano le loro idee a volonterosi assistenti e li minacciano di morte. In tal modo gli elementi migliori di quel sistema, come il proagonista del racconto, sono costretti a fuggire dagli USA e a vivere sotto falsa identità. Insomma la situazione opposta a quella odierna quando invece numerosi (così sembra, ma sono notizie tutte da verificare, vista la fanatica esterofilia massonica di numerose nostre testate giornalistiche) italiani sarebbero costretti a emigrare nelle università americane per poter svolgere, senza ostacoli burocratici e baronali, le proprie ricerche.
A tutto ciò si aggiunga che il rivale in amore del medico, il quale conosce perfettamente l’esatta meccanica degli eventi criminosi, tace per liberarsi dello scomodo collega. La giungla del titolo, più che indicare l’isola africana, sembra quindi riferirsi metaforicamente all’universo americano.
Quando Malasomma gira questo insolito film, gli USA non sono ancora entrati in guerra, ma ormai si intuisce che l’evento è imminente. Così allorché Giungla arriva nelle sale, l’Italia è in guerra con gli Americani da poco più di un mese e l’atmosfera del racconto risulta perfettamente allineata al clima politico generale.
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