TÍTULO ORIGINAL
Lettera aperta a un giornale della sera
AÑO
1970
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés y Portugués (Separados)
DURACIÓN
116 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Francesco Maselli
GUIÓN
Francesco Maselli
MÚSICA
Giovanna Marini
FOTOGRAFÍA
Gerardo Patrizi
REPARTO
Daniele Costantini, Nino Dal Fabbro, Laura De Marchi, Daniele Dublino, Fabienne Fabre, Piero Faggioni, Graziella Galvani, Lorenza Guerrieri, Nicole Karen, Tanya Lopert, Monica Strebel, Nanni Loy
PRODUCTORA
Italnoleggio, Vides Cinematografica
GÉNERO
Drama | Política
Trama
Al termine di una serata in casa di un editore di sinistra, trascorsa come sempre in astratte discussioni, un architetto industriale, la cui fabbrica è in co-gestione con gli operai che vi lavorano, lancia ai suoi amici - un gruppo di intellettuali comunisti, rivoluzionari a parole ma perfettamente inseriti nel "sistema" di cui godono i vantaggi e condividono i vizi - l'idea di inviare una lettera al direttore di un quotidiano di sinistra, chiedendo di partecipare attivamente alla guerra nel Vietnam. Contrariamente alle previsioni, il giornale non la pubblica, ma la lettera esce, egualmente, sulle pagine di un settimanale. L'iniziativa acquista una forte risonanza, si allarga fino a ottenere adesioni anche dall'estero, mentre sembra addirittura che Hanoi, contrariamente al solito, sia disposta ad accettare l'invio di volontari; per quanto non approvi l'iniziativa, anche il partito comunista si vede costretto ad appoggiarla. Accorgendosi della piega tremendamente seria presa da un'iniziativa nata soprattutto per fornire un alibi alla loro coscienza, ma non potendo più tirarsi indietro, gli intellettuali si radunano in una villa di campagna, in attesa di partire. Proprio alla vigilia, però, li raggiunge una notizia da Hanoi: i nordvietnamiti non vogliono volontari stranieri. I promotori dell'iniziativa possono finalmente respirare di sollievo.
Critica
A chiusura dei titoli di testa si legge: «materia del film è un'ipotesi». Metti che una sera, durante un cocktail rivoluzional-borghese, un gruppo di intellettuali comunisti romani, certo più inseriti nel sistema che nel partito, decidano di scrivere a un quotidiano («Paese sera») una lettera, in cui, fra le altre cose, si manifesti il proposito di creare una brigata della cultura, decisa a imbracciare il fucile e a partire per il Vietnam. Metti che nessuno dei firmatari creda realmente al successo dell'iniziativa: primo, perché «Paese sera» non avrebbe mai pubblicato la lettera (per le accuse al partito in essa contenute); secondo, perché i compagni vietnamiti, in ogni caso, non avrebbero mai accettato. Metti però che la lettera, respinta come previsto dal quotidiano paracomunista, finisca sulle pagine de «L'Espresso» e che la proposta raccolga consensi e adesioni non solo in Italia ma anche all'estero, che lo stesso partito comunista italiano, seppure a malincuore, appoggi l'iniziativa, che la brigata venga infine accettata dai vietnamiti. Metti tutto questo: cosa accadrebbe? Il film ipotizza il comportamento pubblico e privato, le varie reazioni del gruppo di fronte alla realtà. Nessuno crede alla sincerità della spinta rivoluzionaria, e pure nei rapporti ufficiali, pubblici (discorsi, dichiarazioni, conferenze ecc.), ciascuno in qualche modo si investe della parte, con la segreta speranza che tutto finisca nel nulla. C'è invece sgomento, paura, disfacimento nei rapporti privati, intimi. Con le donne del gruppo – mogli, amiche, amanti ecc. – il sesso acquista il senso di una valvola di sfogo, funzione evasiva e alienante: un caos erotico-sessuale come condizione di sopravvivenza, forse. Quando tutto sembra ormai deciso, e il luogo dell'appuntamento per la partenza è fissato; quando il gruppo è ormai rassegnato a subire – in una specie di collettiva catarsi – le conseguenze di una situazione da loro stessi messa in moto, giunge improvvisa e liberatoria la notizia che i compagni vietnamiti, all'ultimo momento, si sono ricreduti: niente brigata, la guerra rivoluzionaria se la fanno da soli. Nel gruppo affiorano perplessità, sollievo e persino una punta di amarezza. Qualcuno calcia un barattolo di latta, che si mette a rotolare tra le gambe di altri, lungo il sentiero. Qualcun altro lo risospinge. Il film si conclude in una significativa progressione:una partitella a calcio-barattolo, giocata con sempre più convinzione. Il racconto è costellato da alcune scene violente: sono immagini – sublimate al rallentatore – di tortura.
Dal soggetto stesso, così sintetizzato in chiave di racconto, emergono alcune indicazioni degne di rilievo. Anzitutto, non esistono nel film di Maselli protagonisti individuali. Esiste invece un gruppo, eterogeneo fin che si vuole sul piano di vicenda, ma tematicamente cementato in un unico microcosmo: i nomi, le persone fisiche, le entità individuali tendono a confondersi, a diventare espressione di un malessere corale. Protagonista del racconto, dunque, è il gruppo. Con questa impostazione, Maselli indica abbastanza chiaramente che nel suo film non vengono affrontati, e trattati, problemi individuali (quelli che possono angosciare l'insegnante, l'industriale, l'editore ecc.) : sono i problemi collettivi a interessare, perché sono quelli che maggiormente investono - o potrebbero investire – un largo strato di intellettuali comunisti; e forse sono proprio quei problemi che (tematicamente) animano – o potrebbero animare – l'uomo stesso, nella sua dimensione emblematica. È da notare poi che nell'arco di racconto non esistono massicci blocchi narrativi: l'impianto, nell'insieme, si sostiene su piccole azioni: specchio di discorsi ideologici, di sentimenti, e impressioni. Una struttura nervosa e volutamente frammentaria, che corre per linee orizzontali, anche se non disdegna – in rari momenti (e sono i migliori) – di tuffarsi in profondità. Se il respiro tematico riesce ad emergere in qualche modo – nonostante l'orizzontalità narrativa – è infatti per virtù di un sotterraneo coordinamento di azioni: è insomma il risultato di una esaltante autonomia espressiva dell'immagine che si libera dall'intenzionalità esteriore del suo creatore. Si diceva: il film è costruito su un'ipotesi. Il materiale di partenza non manca. Vengono forniti tutti quegli elementi che sono indispensabili allo sviluppo corretto e preciso del racconto. Il gruppo è caratterizzato con mano decisa (non escluse le donne, che del gruppo sono parte integrante).
Il piccolo microcosmo è formato da intellettuali di sinistra, appartenenti a quella generazione che ha vissuto – chi più chi meno – trent'anni di storia sociale, politica e persino morale, che è stata partecipe di esperienze esaltanti e insieme amare. Questi intellettuali hanno raggiunto nella società contemporanea una posizione di rilievo: non hanno problemi di sopravvivenza, appartengono, e quasi si identificano, a quanto di più consumistico viene oggi offerto. È indicativo, in questo senso, l'ambiente in cui i personaggi (li chiamiamo così per comodità) sono inseriti e fatti muovere: un ambiente di arricchiti, di high society quasi (gli appartamenti che abitano, il modo di incontrarsi ecc.). In tale ambiente, che essi hanno accettato materialmente (ma a un passo pure ideologicamente) si agitano complessi di colpa, frustrazioni, rimorsi. Maselli identifica questo sottobosco esistenziale, all'inizio come percorso da frustrazioni salottiere (abbastanza vane ed aleatorie, quindi), e poi sempre più minato da accenti sofferti e autenticamente vissuti. Evoluzione sensibile. Si avverte a mano a mano che il racconto avvicina i protagonisti ad una realtà gravida di richiami (per esempio, e soprattutto, le immagini delle torture che contrappuntano qui e là, mai casualmente, l'arco narrativo). Le discussioni si colorano d'un contrasto drammatico: «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è». Contrasto antico, che è sempre stato, e che tuttora è. Lucida, compiaciuta e quasi autolesionista analisi di aspirazioni forse ancora vive ma certo tradite dai tempi, e soprattutto dal partito, visto come modello e guida. In Vietnam si fa la rivoluzione col fucile; qui da noi – si lamenta il gruppo – si usano soltanto le parole: e sono parole, quelle del partito comunista, di cui gli intellettuali di Maselli indicano responsabilità precise; tatticismo eccessivo, volontà di potere, apatia, esaurimento di quel respiro rivoluzionario che ne aveva fatto il più valido interlocutore d'opposizione ecc. Il gruppo si sente cioè tradito: è quanto basta per dar fuoco ad aspirazioni represse. Una sera, in cui arieggiano la impotenza, il vaniloquio, e il rifugio nell'espressione tipica «questo è un altro discorso», qualcuno suggerisce di scrivere quella famosa lettera: volontà di «fare» e non più di «dire»; presa di coscienza che una classe intellettuale – soprattutto comunista – non può restare impotente, passiva di fronte ai fermenti rivoluzionari nel mondo. La proposta di creare una brigata della cultura acquista il senso di una sfida: alle maglie del sistema, al partito, ma soprattutto alla coscienza individuale. Tutti sono convinti che la sfida non sarà accolta (ed è per questo che l'hanno gettata). Invece, il gioco si trasforma in una verifica drammatica, inattesa, del proprio io. Il gruppo incomincia a guardare entro se stesso, intuisce le proprie ambiguità di fondo, l'insincerità e forse l'impotenza.
Maselli a questo punto non concede ai protagonisti un attimo di respiro, non ammette alternative: il fluire di alibi intellettuali, personali, individuali, privati; la ricerca di una partecipazione entusiastica alle cose che stanno accadendo, la ricerca cioè di un antico entusiasmo si perdono, si vanificano lentamente, lasciando scoperto l'uomo, toccato da una società in cui egli ha cercato di destreggiarsi facendo quadrare in un certo modo i principi ideali e i bisogni materiali, e da quella società inevitabilmente trasformato, indebolito sempre più, con strumenti allettanti di comodità e lusso, di sfogo delle proprie debolezze. Se il gioco sarà portato fino in fondo, in un ultimissimo rigurgito di dignità (ma che forse non è altro che l'investitura d'una parte eroica che tutto ha del vittimismo), è perché affiora nel gruppo la coscienza di un'imminente disgregazione interiore, del doversi trovare alla fine faccia a faccia. Sul luogo dell'appuntamento, nell'attesa della partenza, sui volti dei singoli appare questo spettro: è forse uno dei momenti più intensi del film. Le due alternative finali: partire o essere costretti a restare, esprimono un'eguale condanna. Partire, significa lo sberleffo di un'ipotesi che si tramuta in realtà (e certo i personaggi in quest'ipotesi non verrebbero ugualmente assolti, se di assoluzione catartica si può parlare); restare, significa accettare – silenziosamente – la finzione di una volontà rivoluzionaria, che in effetti non esiste. In tutti e due i casi, pende sul gruppo la condanna piena. Si noti la sottile ironia con cui Maselli costruisce il momento della partenza (l'inserimento chiave del maggiordomo): partenza che si configura come vacanza, viaggio turistico (abbigliamento, valigie, indumenti ecc. ) La «figurazione» di questa prima alternativa – o possibile conclusione di racconto – non si discosta molto dall'invenzione della partitella di calcio che il gruppo improvvisa, una volta liberato dall'incubo della partenza. Non è forse la sottolineatura di quanto di più «italiano» vi può essere in quella manifestazione? Non è forse la riprova di un'impotenza di fronte al mondo che si tramuta in ansia di evasione? Maselli ha scelto la conclusione più drastica, più provocatoria, in un certo senso. Di questo bisogna dargliene atto: di non aver giocato anche lui fino in fondo.(…)
Giulio Schmidt, Cineforum n. 95-96 (10/1970)
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitolo/C3C2BB9555670923C12573A6003C6665?opendocument
Passati ormai 37 anni da quel 1970, anno di uscita della pellicola, Lettera aperta a un giornale della sera non può certo "mordere" come allora. Visto oggi il film di Francesco Maselli, detto Citto da Luigi Pirandello che fu suo padrino di battesimo (come sottolinea lo stesso autore con rigoroso e fiero puntiglio…), non conserva infatti nemmeno un decimo di quella forza corrosiva che scatenò all'interno del PCI un dibattito autolesionista (come spesso sono i dibattiti a sinistra…), ma è pur sempre un'opera dal sapore etnografico, su un tempo che non c'è più e su un paese ancora lontano dalla derive del berlusconismo.
Quella era l'Italia del Sessantotto (il film, infatti, è girato tra il '68 e il '69), un paese che stava per riversarsi in piazza e dividersi come solo l'apparizione del Messia di Arcore riuscirà nuovamente a provocare: i proletari, parola oramai logora, lottavano travestiti da studenti contro i poliziotti e contro uno Stato che stava per farsi stragista e gli intellettuali, loro sì dei veri borghesi, erano divisi tra il dire e il fare, tra i privilegi e la lotta.
Maselli li ritrae come chiusi in gabbia, quella gabbie costituite dai loro stessi attici in quella Roma sempre più fetente, così astratti eppure così veri nelle loro debolezze di carne: in scena c'è la crisi interna di un'intera fetta della società italiana dell'epoca, dove ricchi giornalisti, registi, editori, imprenditori, artisti e quant'altro erano ostaggi della propria meschinità e dove l'unico comun denominatore erano i desideri sessuali di uomini perversi e donne emancipate. Eccola la vera chicca del film: quella di aver saputo dipingere con spietato cinismo il mondo borghese-impegnato all'apice della sua vergognosa crociata comunista, molto più avvezzo alle lenzuola e alle mutande che alla falce e al martello.
Per questo, Lettera aperta a un giornale della sera più che offrire una risposta ai quesiti interni alla sinistra intellettualoide, alla sua intellighenzia insomma, fa sorgere tante domande su quali siano davvero gli istinti che muovono certi fenomeni storici e quella partita di pallone finale, selvaggia e libera come solo il calcio giocato nei vicoli può esserlo, ne è davvero un simbolo quantomai riuscito.
https://www.sentieriselvaggi.it/dvd-lettera-aperta-a-un-giornale-della-sera-di-francesco-maselli/
Con Citto Maselli a lezione di 900: “Lettera aperta”…
Mettiamola così. Parlare con Citto Maselli del suo cinema significa ripercorre non solo la nostra storia ma anche quella dell’arte, della letteratura, della politica soprattutto, le tensioni sociali e culturali del Novecento. In tempi come i nostri di memoria corta vi proproniamo questo cammino a ritroso – che sarà a puntate – per guardare meglio al presente. Perché per dirla con un altro grande che se n’è appena andato, Umberto Eco, la memoria è l’anima. E un futuro senz’anima non ce lo auguriamo.
Cominciamo dunque da un anno storico, il Sessantotto che Citto Maselli ha raccontato in un suo film altrettanto storico: Lettera aperta a un giornale della sera, uscito nel 1970, ma che di quella stagione ha saputo tratteggiare tutta la complessità, portando in primo piano – con grande coraggio e spirito critico, mai mancato nel suo cinema – le contraddizioni degli intellettuali comunisti, a fronte di un Pci sempre meno “rivoluzionario”.
Le commedie
“Era la fine degli anni Sessanta e l’idea del film – racconta Maselli – mi venne dopo aver fatto due commedie: Fai in fretta ad uccidermi… Ho freddo (1967) e Ruba al prossimo tuo (1969). Un genere devo dire in cui non mi sono mai trovato a mio agio. Dopo Gli sbandati (1955), La donna del giorno (1956), I delfini (1960) e Gli indifferenti (1964), tutti drammatici, si era creata una sorta di insofferenza verso i film d’autore, ci dicevamo che palle, ci vorrebbero delle commedie intelligenti, paradossali…”.
Chiacchiere, diciamo così, che Citto faceva in quel di Ravello, nella villa che prendeva in affitto ogni anno – “ero ricco allora” – in compagnia di due “pericolosi” comunisti: Karel Reisz, tra i padri del “Free cinema” inglese che di lì a poco, infatti, sfornò la commedia-manifesto Morgan matto da legare e sua moglie, Betsy Blair, attrice americana sfuggita al maccartismo e già interprete de I delfini.
“Così – continua Maselli – nonostante fossi polemico sull’andazzo qualunquista di certo cinema che imponeva l’ironia su tutto, mi decisi a fare anch’io delle commedie. Fai in fretta ad uccidermi, la scrissi con Andrea Barbato e ricordo che una sera ad una riunione di sceneggiatura arrivò pure Umberto Eco. E poi, la seconda, Ruba al prossimo tuo che girammo in una New York invernale, così fredda, da costringere gli attori a recitare col ghiaccio tra i denti per non far uscire loro il fumo di bocca… Risultato: ancora mi pento di averle fatte”.
Non ancora…
Ed è proprio a New York che Maselli “strappa” la promessa a Franco Cristaldi, il suo produttore: “Adesso, però, mi fai fare un film politico come voglio io!”. Ma al rientro in Italia la promessa è “disattesa”. Inarrestabile Citto corre al Messaggero per un’intervista con Costanzo Costantini che offrirà un articolo incandescente, per quegli anni: “Cristaldi si è venduto agli americani”.
L’obiettivo è raggiunto. “Mi ricordo che Franco – prosegue Maselli – mi chiamò subito alla Vides e mi mandò dall’amministratore, Durazzi, per firmare una prima bozza di contratto, praticamente a scatola chiusa. A patto che il costo fosse entro i 90 milioni di lire, che trovassi una distribuzione e scrivessi due righe di soggetto”.
La distribuzione arrivò con l’Italnoleggio – l’Istituto Luce di oggi – e il soggetto Citto lo scrisse in una notte, col titolo Non ancora, trasformato in seguito in Lettera aperta a un giornale della sera. Ed eccolo come lo racconta lui stesso: “Una sera un gruppo di intellettuali comunisti mandano una lettera polemica a Paese Sera criticando il Pci per aver abbandonato le posizioni rivoluzionarie. E si offrono di andare in Vietnam a combattere al fianco dei viet cong. Il dramma avviene quando la lettera, che doveva essere una semplice provocazione, viene pubblicata e facendo grande scalpore costringe il gruppo a partire davvero. Almeno in un primo momento, sconvolgendo le loro vite di uomini arrivati e realizzati”.
L’architetto, il direttore editoriale, lo scrittore, lo sceneggiatore, il regista e il professore universitario, tutti con rispettive mogli e amanti che all’improvviso si ritrovano a rischiare il loro mondo di privilegiati, fatto di vernissage, nottate di chiacchiere, politica, sesso – siamo in piena “liberazione sessuale” -, auto di lusso e salotti, mentre gli studenti vengono torturati nelle caserme, come ci rimanda il film, attraverso un montaggio frenetico, dialoghi serrati, movimenti di macchina di dinamica eleganza sulle note di Giovanna Marini che, ancora oggi a distanza di quasi cinquant’anni, fanno di Lettera aperta un folgorante e avveniristico esempio di cinema d’autore.
Il Sessantotto era già scoppiato. “Ed essere del Pci – prosegue Maselli – significava essere riformisti e non rivoluzionari. Ed io che sono sempre stato con Ingrao, sconfitto nel partito nel ’66 con l’11esimo Congresso, ci stavo dentro ma ero molto critico”. Senza però abbandonare mai la politica attiva, la militanza culturale nella Commissione cinema del Pci al fianco di Mino Argentieri o le battaglie dell’Anac, la storica associazione degli autori che, proprio nel ’68, “occupò” la Mostra del cinema di Venezia, iniziando quella battaglia che portò alla riforma della Biennale.
E magari, ancora, pagando personalmente il prezzo del “rigore comunista” mettendo una croce sopra ai Caroselli, fonte di ottimi guadagni per tanti grandi nomi del cinema anche militante: Pontecorvo, Taviani, Comencini. “Eh già – ricorda ancora Citto – ci davano un sacco di soldi per quelle pubblicità. Io girai anche quella famosa della Peroni… sarò la tua birra. Poi, ed era il ’68, Lietta Tornabuoni scrisse un articolo in cui diceva più o meno: “Citto Maselli il comunista è al soldo del capitale”…. Così andai subito a comunicare al partito che interrompevo coi Caroselli. Alla fine tutti gli altri hanno continuato e solo io sono rimasto fuori”.
Altri tempi davvero. Che Maselli ha affrescato in quel grande ritratto d’epoca – anche da un punto di vista estetico – che è Lettera aperta. “Nel film – aggiunge – ho messo tutte le anime politiche e le contraddizioni dei tempi”, ricavandosi anche un ruolo d’attore per sè, il “militante alla Saverio Tutino”, con un splendido cappotto di cinghiale.
Alla sua uscita il film suscitò un dibattito epocale, tanto che l’Italnoleggio pubblicò addirittura un libro con tutte le recensioni, le “lettere aperte” e gli interventi che uscirono. “Maurizio Ferrara su l’Unità – conclude il regista – mi attaccò sostenendo, in sentesi, che il film fosse inutilmente polemico contro il Pci e che io mi atteggiassi come un bambino a cui sfugge la palla. E Pajetta, allora direttore, mi fece pubblicare una replica in terza pagina “data la tua storia”, così mi disse. Ci misi una settimana per scrivere la risposta, tanta era la responsabilità che mi sentivo addosso!”. Insomma, altri tempi davvero.
Gabriella Gallozzi
https://www.bookciakmagazine.it/quella-lettera/
Un gruppo di intellettuali comunisti, più o meno organici al PCI, decidono di rompere con la monotonia delle dichiarazioni stampa. In risposta a una richiesta di un giornale della sera, certi della non pubblicazione di quanto scriveranno, si offrono di partire volontari per difendere il Vietnam dall'invasione USA. La lettera viene pubblicata da un settimanale e i comunisti vietnamiti, che avevano rifiutato i volontari sovietici e di altri Paesi alleati, decidono di accettare la Brigata della Cultura, nel frattempo cresciuta per un inatteso numero di adesione. L'ipocrisia degli intellettuali comunisti italiani rischia di richiedere un prezzo troppo alto, che non tutti sembrano disposti a pagare...
"Noi volevamo cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi"
Come quando sei seduto a tavola e non hai voglia di alzarti, ti offri di andare a prendere la bottiglia di vino ma resti seduto, certo che il padrone di casa non ti mostrerà la scortesia di mandarti nell'altra stanza. Un'ipocrisia comune all'essere umano, il voler apparire più di quello che si è. Nel caso degli intellettuali italiani la questione si accentua.
La cultura: quando esisteva visibilmente, quando suscitava dibattito, quando per un film si finiva per discutere su paginate e paginate di giornali (che venivano letti). Quando la politica non era "solo" andare a votare e rincretinirsi davanti al piccolo schermo. Quando potevi denunciare attraverso un'opera che gli altri avrebbero visto e su cui avrebbero ragionato.
Un film che sfata le barzellette e la propaganda revisionista che vuole un PCI dogmatico e stantio. Si narra di come Pajetta (dirigente del Partito), a un giornalista di Le Monde Diplomatique, alla considerazione del giornalista francese "da noi per un film del genere il regista sarebbe stato buttato fuori dal PCF", abbia risposto "perchè il vostro è un Partito serio". La realtà è che il dibattito esisteva e che le prime critiche al socialismo reale, in Italia, le hanno sempre fatte i comunisti. Questo film fa di più: denuncia i limiti e le contraddizioni dei comunisti italiani e di una parte della cultura italiana, egemonizzata al tempo dalla sinistra.
Il primo film di critica al PCI è di un regista tesserato al Partito dal '44, ancora oggi attivo in Rifondazione Comunista. L'autocritica, fatta con onestà, è la critica più efficace, come si vedrà nello splendido Il Sospetto di qualche anno dopo e nel recente Le Ombre Rosse.
Un film politico, di parte ma valido per chiunque abbia voglia di uscire dagli stereotipi e voglia recuperare una serietà e una dignità oggi del tutto assenti nel Paese, anche leggendo la battaglia giornalistica che scoppiò al tempo.
Un film legato al suo tempo ma ancora attuale, dove le scelte tecniche valgono ancora in tutto il loro peso. Lo stile del documentario, la frenesia e la mancanza di staticità. La centralità e l'esagerazione (autoironica) del sesso, dei corpi, legate a una rivoluzione (l'uscita dal puritanesimo) oggi involuta nel costume contemporaneo.
L'immediatezza e il nervosismo delle riprese, l'anticonformismo dei contenuti, la consueta cura della fotografia contribuiscono a rendere il film come una copertina di LIfe, sgranata, sfondata, con tutto sovraesposto. Qualche attore non professionista c'è ma per la maggior parte sono tutti di mestiere ma non conosciuti. Riuscito il doppiaggio degli attori (ognuno doppia sè stesso, eccetto Nanny Loy e Maselli), di cui il regista è uno dei più forti sostenitori, complice una recitazione convincente e realistica.
Un phamplet di carattere autobiografico che già denuncia quel salotto della sinistra che è rimasto protagonista della politica italiana. Attraverso una denuncia del proprio tempo arriva a delineare una sintesi dell'uomo prima che della sinistra, guardando alle sue passioni, alla sua formazione materiale (più che esistenziale).
Un film denso, dove trovano spazio inserti che denunciano la violenza della Polizia e la repressione del movimeno studentesco di quegli anni (tutte legate a esperienze storiche reali). Il potere si accanisce contro ci si contrappone al sistema, non contro chi finge di farlo.
Se non fosse per la General Video sarebbe complicato imbattersi in questo titolo: sintomo dell'idiozia di una certa Italia.
Non resta che ritrovarlo e seguire il suggerimento del finale (di non immediata interpretazione): non rassegnarsi e confidare nel fatto che la voglia di cambiamento è destinata a non tramontare mai definitivamente.
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