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martes, 31 de agosto de 2021

Nostra Signora dei Turchi - Carmelo Bene (1968)

TÍTULO ORIGINAL
Nostra signora dei turchi
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados) e Inglés (Opcional)
DURACIÓN
124 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carmelo Bene
GUIÓN
Carmelo Bene
MÚSICA
Carmelo Bene
FOTOGRAFÍA
Mario Masini
REPARTO
Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Ornella Ferrari, Anita Masini, Salvatore Siniscalchi, Vincenzo Musso, Jed Curtis
PRODUCTORA
Patara
GÉNERO
Drama | Cine experimental. Surrealismo. Película de culto

Sinopsis
El cineasta independiente Carmelo Bene hace su debut en esta película que hace referencia al asesinato hace siglos de los sarracenos en la ciudad de Otranto. La Virgen aparece en varios momentos de la película, como símbolo de los deseos carnales y sueños espirituales de los hombres. (FILMAFFINITY)

Premios
1968: Festival de Venecia: Premio Especial del Jurado. Nominada al León de Oro.

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'Nostra signora dei turchi', 50 anni dopo torna l'ardito film-non film di Carmelo Bene

Come lui non c’è stato nessuno. Nessuno capace di elargire un pensiero così alto, di creare spettacoli, film, libri tanto arditi, profondi, contraddittori, di essere tragico e beffardo, puro e diabolico, intelligente a tal punto da mostrarsi indigesto, così sottile da prendersi gioco di tutto questo. Carmelo Bene torna alla ribalta perché sono 50 anni esatti dalla presentazione di un film-non film come Nostra signora dei turchi che nel '68, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia più tormentata della storia (quella delle contestazioni e delle rivolte), vinse il Leone d’Argento, con l’assoluto disprezzo dello stesso Bene il quale puntava al più remunerativo Premio della Critica.

Il film verrà celebrato, in una forma ardita e un po’ particolare, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, diretta da Pedro Armocida, in programma dal 16 giugno con la riproposizione del mitico Hollywood Party di Blake Edwards con Peter Sellers e fino al 23 dello stesso mese con la presentazione di Diva!, il film di Francesco Patierno dedicato a Valentina Cortese in linea con l’evento speciale del festival dedicato quest’anno a Le donne nel cinema italiano (e ci saranno proiezioni e incontri tra le altre, con Sonia Bergamasco, Laura Bispuri, Silvia Calderoni, Giada Colagrande, Tea Falco, Ilaria Fraioli, Lucia Mascino, Ludovica Rampoldi, Roberta Torre). Ma è l’appuntamento con il cinema di Bene a essere tra i più originali e inediti. Il film sarà presentato infatti coi 'rushes', i girati giorno per giorno sul set, dunque immagini non montate, mute e in bianco e nero che non sono il film, semmai documentano il processo creativo di un artista irripetibile, ne svelano il 'dietro le quinte', rivelando il pensiero di C. B. nell’atto in cui componeva. Ma andiamo con ordine.

Nostra signora dei turchi era nato come romanzo nel '66 e lo stesso anno portato anche a teatro. Poi nel ‘68 il film e successivamente di nuovo a teatro. Il film, il primo della breve carriera cinematografica di C. B. (solo cinque film fino al '73), come il romanzo, sembra una voluta parodia del flusso di coscienza interiore, ma Bene lo definiva “ben altro. È il più bel saggio, in chiave di romanzo storico, su quel mio sud del Sud”. Le immagini iniziali ci riportano alla strage del 1480 ad opera dei Turchi degli 800 martiri di Otranto che rifiutarono di convertirsi all’Islam le cui ossa sono raccolte nella cappella-ossario della Cattedrale che gli spettatori vedono quasi in apertura. Protagonista, attraverso la voce fuori campo di C. B., è un 'io' che percorre tutto il film, un 'uomo pugliese' che incarna la solitudine metafisica dell’artista e preconizza l’imminente rovina e, come quei martiri cristiani, sceglie di autodistruggersi, trovando solo nella morte la propria salvezza.

Senza una vera sceneggiatura, con molte improvvisazioni degli  attori, tra l’invettiva visionaria e la dissacrazione, tra religiosità e paganesimo, donne e madonne, carico di citazioni, riferimenti colti, di poesia, il film è un unicum, un’opera anticinematografica, come la consuetudine vuole che sia il cinema (i sincroni, il montaggio, la sequenza delle immagini… tutto ha un gusto personalizzato) e per lo spettatore si rivela un’esperienza immersiva.

All’epoca, 50 anni fa, in un clima sociale e culturale che pare ere geologiche lontano, ebbe anche un certo seguito e successo, dopo le feroci discussioni alla Mostra veneziana, dove la leggenda vuole che C.B. con un diavolo per capello perché il film non era piaciuto a tutti, prese a schiaffi il giornalista della Rai, Carlo Mazzarella. Vederlo ora a Pesaro in questa veste inedita, sarà qualcosa di eccentrico, e non solo per i 'beniani' o i cinefili.

I 142 minuti, ridotti poi a 125' nel film visto a Venezia e che ancora si vede nei cd, qui sono espansi in undici ore e mezza di girato. I rushes, rinvenuti tra i materiali della Microstampa depositati nella Cineteca Nazionale (partner del festival con la Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia), sono materia grezza, la testimonianza di un processo creativo che nella poetica di C. B. è anche un processo distruttivo, di negazione, di sottrazione.

Del film quelle immagini hanno poco, “non sono neanche un’eco lontana”, scrive Fulvio Baglivi, esperto di riusi di immagini (vedi Blob su Rai3) - ma sono un documento di questo processo distruttivo, con il loro grigio silenzio e la durata espansa dei ciak ci permettono di scorgerlo, ci concedono di soffermarci sull’atto geniale di Bene, cosa impossibile di fronte ai suoi film che continuano a lasciare tramortito e senza fiato chi ci si accosta”.

Anna Bandettini
https://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2018/06/13/news/nostra_signora_dei_turchi-198812409/


Doppiano anche il culo. Così disse Carmelo Bene a Sandro Veronesi in un’intervista del 1994 trasmessa dall’allora neonata e stimolante Tele+3, soltanto uno degli interessantissimi extra contenuti nel cofanetto editato da Rarovideo e Mustang Entertainment per Nostra Signora dei Turchi. Prima “manifestazione cinematografica” (qualsiasi altro termine come “opera prima”, “primo film” eccetera sarebbe del tutto fuori luogo in questo caso) dell’arte del Maestro leccese, che odiava il cinema quanto odiava molte altre cose e persone, e che mostrò il suo primo lungometraggio in forma di un netto attacco al cinema stesso. Un cinema odiato perché in esso tutto è doppiato, duplicato, una finta arte che secondo Bene non possedeva alcuna specifica virtù, in quanto debitrice irrimediabile di altre arti (pittura, fotografia, musica, teatro) tutte però ricondotte tramite il cinema a una dimensione più volgare. Per Carmelo Bene, il trionfo del cattivo gusto.

Il nuovo cofanetto pubblicato da Rarovideo compie in realtà un prezioso lavoro di recupero e valorizzazione, un vero materiale da studio composto da 2 dvd e un libro: oltre al supporto contenente il film, infatti, il secondo disco propone il cortometraggio Hermitage che precedette di poco la lavorazione di Nostra Signora dei Turchi (1968) e ne costituisce una sorta di preparazione/esercizio tecnico, e ricchissimi contributi extra, tra cui l’intervista di Sandro Veronesi a cui accennavamo in apertura, un contributo di Enrico Ghezzi, un cortometraggio di Ciprì e Maresco a cui Carmelo Bene prestò la voce over, trailer, locandine originali e rassegna stampa, e un ulteriore contributo sull’opera di restauro effettuata sia sul film sia su Hermitage. Il libro invece contiene ampi contributi da parte dello stesso Carmelo Bene, di suoi collaboratori (il direttore della fotografia Mario Masini) e di storia critica, tra cui un illuminante intervento di Adriano Aprà. Come più volte è accaduto nel corso della sua carriera, e come raramente accade nella maggior parte dei casi, Carmelo Bene è uno dei più interessanti da ascoltare riguardo al proprio cinema e alla propria arte in generale. Perché, tra le altre cose, con l’atteggiamento che ben conosciamo, liquida il cinema come non-arte, come cascame postmoderno che è nato morto con il treno dei Lumière, e la forza delle sue argomentazioni è tale da farcelo anche un po’ credere. “Non ho mai visto un film squilibrato, un film che smargina” dice Carmelo Bene. E in qualche modo ha ragione. Anche la sperimentazione più ardita rientra spesso in un linguaggio e una grammatica condivisi, raramente messi in discussione. Con il suo solito atteggiamento tranchant liquida autori come Fellini e Pasolini, il primo soprattutto, tacciandoli di adozione di grammatiche condivise. Per Bene il film squilibrato è quello che eccede il cinema stesso (concetto carissimo al Maestro leccese per tutte le forme d’arte che ha adottato e rovesciato), che ne forza le cornici rettangolari, che aspira a un altrove. In tal senso, Carmelo Bene getta il suo estremo tentativo oltre il consueto già con Nostra Signora dei Turchi, prima uscita cinematografica di una breve e intensissima stagione (Bene si occuperà di cinema solo tra il 1968 e il 1973, dando vita a ben 5 film, per poi dedicarsi alla tv e infine ritornare al teatro). È banale anche solo pensare di riassumere in qualche riga quello che per i film più comuni chiameremmo trama o storia. Si tratta infatti di un bombardamento di suggestioni audiovisive, in cui il lavoro di montaggio regna sovrano e l’operazione espressiva è tutta concentrata sull’esplosione dei significanti. Come ben sottolinea Enrico Ghezzi nel suo intervento compreso nel cofanetto, è errato parlare di “cinema di Carmelo Bene”; è più corretto parlare delle sue “opere”, considerate come un flusso unico e continuo che dal teatro va al cinema, alla tv e ritorna al teatro. Unico e coerente è, infatti, sopra ogni cosa il lavoro sottile sui significanti, individuati nella specificità del linguaggio adottato e fatti esplodere tramite l’amplificazione, la reiterazione, l’insistenza fino al grottesco, la deformazione esteriore, gli accostamenti liberi e scatenati del montaggio.

Nostra Signora dei Turchi parte da una forte consapevolezza a monte del cinema e dei suoi strumenti espressivi, che secondo Bene è finta arte e tripudio di cattivo gusto. E compie un’operazione di estrema violenza sui suoi stessi strumenti. Se il cinema ha fatto della falsa continuità delle immagini il suo cardine tecnico-espressivo (il montaggio classico), Bene prende le mosse da quello minandolo dall’interno. Quattromila inquadrature per circa due ore di proiezione, che diventeranno quattromilacinquecento per Salomè (1972), che dura quasi la metà. Spariscono la coerenza e il montaggio scientifico, e trionfano le associazioni libere, la costruzione spesso contrastiva tra immagine e musica, le riflessioni misticheggianti che in comune con la forma del film conservano l’aspirazione a un altrove, oltre le forme, oltre i contenuti, oltre ciò che è umanamente espresso. Il costante lavoro sui significanti, del tutto slegati dal loro specchio nel significato, conduce progressivamente lo spettatore verso qualcosa di veramente raro nel cinema, ovvero il puro piacere della fruizione. Il piacere, quasi ludico e infantile, di percepire e fruire l’oggetto-cinema nelle sue componenti, fatte collidere l’una con l’altra in funzione di una nuova godibile sensorialità e sensualità. Basti vedere l’enorme lavoro compiuto in Nostra Signora dei Turchi sulla voce umana, assoluto espressivo di tutta l’arte di Carmelo Bene che qui viene di nuovo fatta oggetto di violenze e ripetizioni, fino al contorcimento e alla sua riduzione a puro suono. Così come la voce umana è spesso attaccata nel suo uso convenzionale in cinema, ovvero la corrispondenza tra voce e immagine. Bene sposa spesso l’asincronismo, denunciando di nuovo il meccanismo connotato, l’inganno dei sensi. Di quel che si parla, e “cosa” si parla, è del tutto secondario, perché nell’universo di Bene già il parlare è atto impossibile.
La polemica si fa ogni tanto più dichiarata ed evidente, quando in alcuni segmenti di Nostra Signora dei Turchi appaiono figure di committenti d’arte in conflitto prima psichico, poi fisico con l’attore. E come spesso capita in operazioni di questo tipo, pian piano il film passa a linguaggi più accessibili. A una prima parte folgorante, segue una seconda dove addirittura pare di scorgere (mon Dieu!) un tenue filo narrativo. Di sicuro resta comunque un cinema mai visto, e mai più rivedibile. Un cinema dell’altrove, già fatto raro in sé. E, se il fatto si ripete, ognuno intravede comunque un proprio irripetibile altrove.

Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2014/07/20/nostra-signora-dei-turchi/


« uno dei film più eccentrici mai (dis) fatti, dove carmelo bene si fa centro del mondo indossando lo sguardo del cinema e mettendolo in prova e alla prova, combattendolo, strappandolo, provando a farlo scoppiare. un capolavoro di comicità di malinconia di erotismo, di derisione di misticismo. è da stravedere anche il corto Hermitage, la sua prima cosafilm, che si misura subito (sublime jerry lewis mutante) con tutta l’ossessione che è il cinema, mostrando che nello specchio non vediamo mai noi stessi ma lo sguardo di un altro che vede vide vedrà. » (Enrico Ghezzi)

« (…) La superficie dei film di Bene è un inferno di immagini e di suoni, mondo impuro, cumulo di macerie. Ma da esso si alza una voce, che sempre più si libera da quelle apparenze. L’eremo in cui egli si chiude non è una cella della dalle pareti nude: è un magma di immagini e di suoni depositati dalla cultura, soprattutto barocca e déca-dentè , così ricca d’insegnamenti, e prima da quella popolare, religiosa, meridionale e salentina. L’eremo (hermitage in inglese) è anche Ermitage, galleria di quadri accumulati da secoli; è la camera da letto, camera oscura in cui premono, si riflettono e si moltiplicano le fantasmagorie del passato; è il laboratorio alchemico, in cui si mescolano le sostanze alla disperata ricerca della pietra filosofale, che sola conta. (…) nostra Signora dei Turchi supera la relativa staticitàvisiva e linearità narrativa di Hermitage per affrontare un’esperienza sinestesica molto più complessa. Bene mette in crisi la discrezione e la discontinuità tecnica del cinema tradizionale, che in fase di ripresa e poi di montaggio distingue e separa le varie inquadrature per poi unirle in una continuità illusoria. Propone invece una simultaneità di impressioni visive e sonore, un amalgama sensoriale: materialmente tale sul pino sonoro, accentuato dall’asincronismo: mentre su quello visivo – dove non sono molte le sovrimpressioni e tecnicamente funziona ancora la distinzione fra un’inquadratura e un’altra – esso si realizza, al livello della percezione, che tende a impastare ciò che è separato, producendo qualcosa come una sovrimpressione mentale. In altre parole, Bene tende a mettere una cosa dentro l’altra invece che una cosa dietro l’altra. E poiché ciò che mette sono materiali fra loro in contraddizione cromatica, culturale, cronologica, perviene a un continuum di dissonanze. L’esperienza sensoriale dello spettatore è rivitalizzante come un fuoco d’artificio: il piacere del testo. Il film sembra raccontare una storia di frustrazione e di morte: il protagonista s’immola sull’altare della santa sfibrato dal proprio eccesso d’amore e dal proprio tradimento, dalle proprie contraddizioni di uomo umano, lacerato da illuminazioni e incubi; ma per lo spettatore il film continua a pulsar impresso nella memoria come un oggetto vivo: è un godimento. L’erotismo cinematografico di Nostra Signora dei Turchi è forse ancora l’ultimo mascheramento di Bene, che lo mortifica nel film successivo, Capricci. (…) » (Adriano Aprà, Carmelo Bene oltre lo schermo in AA.VV. Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, Milano 1995)
http://www.umbertocantone.it/nostra-signora-dei-turchi-hermitage-di-carmelo-bene-edizione-rarovideo/

Un lungometraggio del 1968, diretto e interpretato da Carmelo Bene. Tratto dal romanzo omonimo, Nostra Signora dei Turchi segna idealmente la linea delimitante gli anni di gavetta di Bene da quelli successivi, ormai costellati da un costante e crescente successo. Appena uscito, in piena contestazione, Nostra Signora dei Turchi, inizialmente della durata di 160 minuti fu ridotto poi a 125 per essere proposto alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il film vinse il premio speciale della giuria ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade alla 33ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Con Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Salvatore Siniscalchi, Anita Masini.

Trama

Alla base di tutto c’è il ricordo di una strage compiuta dai turchi ad Otranto. Un ricordo ovviamente non personale, ma quasi genetico, visto che il protagonista è un intellettuale dei nostri giorni. Tra le sue visioni prendono posto ricordi infantili, colloqui immaginari e la presenza di una donna di nome Margherita (Lydia Mancinelli), ma che si annuncia sotto le spoglie di Santa Maria d’Otranto. È passato del tempo e intanto Bene ha smesso da un po’ di fare cinema. È molto facile odiarlo e considerarlo addirittura sorpassato, ma i suoi cinque film sono quanto di più vitale, originale e interessante il cinema italiano sia mai riuscito a produrre.
“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: questo è il caustico distico col quale Carmelo Bene siglò il prologo alla raccolta delle sue opere, edita per la collana dei classici di una nota casa editrice. E come dargli torto; certo, impalmarsi da sé, piuttosto che attendere l’investitura ufficiale delle istituzioni addette alla valutazione scientifica del genio, potrebbe apparire politicamente scorretto, ma come disse Leopardi: “Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia”.

Così il funambolo del dis-dire, l’acrobata della “differenza” tra atto e azione, il profeta del mis-fatto, l’ostinato detrattore del “dover essere” etico e estetico, il martire della presenza-assenza, e in ultimo – per non debordare nell’assegnazione di titoli non richiesti – il feroce iconoclasta, infischiandosene del rituale della proclamazione di Stato, si consegnò autonomamente all’immortalità dei classici molto tempo prima del trapasso, vomitando il proprio disprezzo su una platea di “morti”, cui augurava di essere restituita al più presto all’inorganico.
 
Bene, nel suo personalissimo itinerario, maturò una manifesta avversione alla cinematografia – più volte definita “la pattumiera di tutte le arti” – in quanto teso a evadere da una visione dell’espressione legata ancora alla rappresentazione, al simbolismo e a una certa funzionalità consolatoria e decorativa. Non cessò mai di predicare l’auto-superamento dell’arte, individuando nell’abbandono – inteso come eccesso, come l’al di là del desiderio – la disgregazione del concetto di soggetto (e sua conseguente trasfigurazione in rapporto oggetto-oggetto), oltre che l’unica possibilità di salvezza: così “i cretini che vedono la Madonna sono essi stessi la Madonna che vedono”.

Alla luce di queste premesse, è chiaro che Nostra Signora Dei Turchi s’installa in una fase preparatoria e sovversiva che gesticola furiosamente contro i codici e le convenzioni. L’esigenza di frantumare l’immagine-corpo e di sfregiare in faccia il senso, così come la Storia – per sottrarsi alla dittatura del tempo Cronos e guadagnare l’anarchia del tempo Aion (dell’immediato) – fa di questa pellicola il tentativo impossibile di incendiare l’ignifugo velo apollineo dell’immagine in movimento. La visibilità del singolo fotogramma, irrimediabilmente orfana della differenza, della presenza-assenza, non permette di perseguire il liberatorio intento di accecare l’immagine. Insomma l’immediato, giacché immediato svanire, è sistematicamente tradito dall’invadenza del visibile che, pur sciogliendosi in afasia, musica e canto, non si de-realizza a sufficienza per obliare la volgarità dell’azione-intenzione.

Chi vedesse Nostra Signora Dei Turchi per la prima volta sarebbe inevitabilmente irritato dal terroristico cortocircuitare del senso che rende il film una suite di episodi gratuita; gratuità di una demenza che santifica l’artefice prodottosi nell’opera, trasformandolo nel capolavoro stesso. È come se, in questa primo periodo della sua disubbidienza, Bene si fosse affannosamente adoperato a dis-dire il Detto per poi balzare di colpo – una volta scampata la trappola dell’espressione – su un Dire che, contemporaneamente dis-dire, schiva agevolmente il calco onnivoro del Detto medesimo. “Non lasciar traccia alcuna”: questo è il motto dell’osceno beniano che, insorgendo contro la vanità, la cialtroneria e la maschera puttanesca dell’arte, si deterritorializza in un fuori-scena irrecuperabile, nel farsi l’alone del fumo che aleggia sulla sublime evanescenza dell’enigmaticità del misfatto.
 
Risulta allora evidente che l’irruzione dell’enfant terrible nella settima arte non potesse conciliarsi con i limiti invalicabili del mezzo tecnico. Nostra Signora dei Turchi conduce il cinema fino alle sue estreme possibilità, producendo una contorsione acrobatica della pellicola e mancando per un soffio quella definitiva combustione che avrebbe tolto per sempre alle “masse di perdizione” l’opportunità di fruirne, evitando così che l’impurità del Logos – sempre insufficiente tra l’altro – oltraggiasse la santità di un’idiozia dis-appresa nei millenni.
https://www.insidetheshow.it/460572_disponibile-su-youtube-nostra-signora-dei-turchi-di-e-con-carmelo-bene/



 

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