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sábado, 4 de mayo de 2013

Il treno crociato - Carlo Campogalliani (1943)


TITULO ORIGINAL Il treno crociato
AÑO 1943
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 85 min.
DIRECCION Carlo Campogalliani
GUION Carlo Campogalliani, Gian Bistolfi, Alessandro De Stefani
REPARTO Ciro Berardi, Rossano Brazzi, Renato Chiantoni, Ada Dondini, Paolo Ferrara, Checco Durante, Cesare Fantoni, Fedele Gentile, Adele Garavaglia, Renato Malavasi, Elio Marcuzzo, Beatrice Mancini, Arrigo Maggi, Maria Mercader, Renzo Merusi, Silva Melandri, Piero Pastore, Aldo Pini, Ugo Sasso, Umberto Sacripante
FOTOGRAFIA Giuseppe Caracciolo, Leonida Barboni
MUSICA Costantino Ferri
PRODUCCION SCALERA FILM/SUPERBA FILM (GENOVA)
GENERO Drama / Guerra

SINOPSIS Sul treno ospedale c'è un tenente ferito sul fronte orientale. Durante una sosta nel paese natio, il giovane riesce a far accettare dalla madre la donna amata dalla quale ha avuto un figlio. Film di guerra e sulla guerra, vista dalla parte delle vittime. Fievole melodramma di propaganda con eccesso di zuccheri. (Il Morandini)


Trama
Un tenente dei guastatori ferito al fronte orientale e ricoverato in un treno ospedale narra di una relazione avuta al paese, per la quale è diventato padre. Vari episodi illustrano la vita del treno ospedale. Durante il viaggio di ritorno, un allarme aereo costringe il treno a sostare proprio nel paese del tenente ferito e fa sì che la madre di lui, seppure recalcitrante, accetti la maternità della donna amata dal figlio. Durante il caos dei bombardamenti, sul treno dilaga il panico.

Critica
"Campogalliani, vecchio ed esperto topo di Cinelandia, ha affrontato in questo film uno di quei temi che contengono in loro stessi la metà più uno degli elementi del successo: il treno-ospedale. Si può restare freddi o indifferenti quando uno spettacolo ritrae o quanto meno vuol ritrarre un episodio che ha per sfondo quei tragici e gloriosi convogli di eroi feriti? Il regista, dunque, ha avuto buon gioco per commuoverci e per interessarci. [...] Rossano Brazzi e Maria Mercader, Cesare Fantoni e Beatrice Mancini, Carlo Romano e Ada Dondini, a capo di una numerosa schiera di bravi attori, hanno dato al film la vita un poco enfatica e romantica che l'impostazione richiedeva. Hanno encomiabilmente assolto il loro impegno, senza dubbio.
Ma, forse, avremm potuto ben altrimenti elogiarli se soggetto, sceneggiatura, dialoghi e regia fossero stati degni di maggior elogio". (Dario Falconi, "Il Popolo d'Italia", 14 maggio 1943).

Note
- IL FILM ERA STATO PREANNUNCIATO CON IL TITOLO PROVVISORIO DI "TRENO CROCIATO CR. 15".
- IL RUOLO DI PAOLO STOPPA E' STATO NOTEVOLMENTE RIDOTTO AL MONTAGGIO.
http://cinema.libero.it/bd/schedafilm/388/il-treno-crociato

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Intorno alla questione russa esce qualche mese dopo Il treno crociato (aprile 1943; 85 min) diretto da Carlo Campogalliani, regista (nato nel 1885) che aveva esordito all’epoca del muto ed aveva firmato una dozzina di dignitose pellicole nel periodo 1930-42, il cui protagonista è ancora Rossano Brazzi. Vi si racconta il lungo viaggio di un treno ospedale che lascia la Russia per portare i numerosi feriti in patria. Il regista si sofferma sulla vicenda del tenente Alberto Lauri il quale, gravemente ferito ed immobilizzato a letto, ricorda (in flashback) la propria tortuosa vicenda sentimentale la quale allinea l’appartenenza ad una famiglia aristicratica, l’amore con una ragazza del popolo (Maria Mercader), gli ostacoli frapposti dalla madre (Ada Dondini) e la nascita di un bimbo fuori dal matrimonio. Giunto il convoglio a Torre rossa, paese dell’ufficiale, durante una sosta protrattasi a causa di un bombardamento aereo, un amico corre ad avvisare l’anziana madre e la fidanzata del giovane che si precipitano a salutarlo sul treno. In quel drammatico frangente le due donne finalmente si comprendono e la prima approva la scelta del figlio.
La pellicola si muove lungo due binari, entrambi canonici della cinematografia fascista. La vicenda amorosa ripete la nota visione populista del regime ovvero fiera antipatia nei confronti delle classi nobiliari, simpatia completa verso l’umile, fattiva borghesia impiegatizia (la ragazza lavora alle poste) e difesa senza quartiere della maternità, in qualunque contesto essa si manifesti (riguardo al bimbo nato fuori dal matrimonio la giovane afferma soddisfatta: “un tempo una ragazza come me era costretta a nascondersi in campagna per partorire; ora invece va alla maternità”).
Sulla questione bellica invece il film ripete quel tipo di rassicurante cronaca che aveva segnato i primi lavori di De Robertis e Rossellini (Uomini sul fondo e La nave bianca, entrambi del 1941; in particolare il secondo lavoro, ambientato su una nave ospedale, è l’evidente modello della pellicola di Campogalliani; vedi); tuttavia nella primavera 1943 c’é ben poco da “rassicurare” in quanto le peggiori sciagure sono già tutte avvenute e la popolazione spera ormai in una qualunque conclusione del conflitto e nella caduta del regime per poter porre fine alle perdite di vite umane e ad una situazione quotidiana difficilissima (scarsità di viveri, mercato nero, drammatico aumento del costo della vita, bombardamenti, sfollati ecc.) che sfocia nei massicci scioperi del marzo-aprile 1943, i primi del ventennio motivati essenzialmente dal forte disagio economico delle classi lavoratrici. Tra le numerose lettere private citate da Aurelio Lepre in L’occhio del duce (1992) ce ne sono molte che testimoniano la precaria situazione alimentare; ad esempio da Padova nell’aprile 1943 una donna scrive: “E’ tre giorni che tiro la cinghia e mi mangerei le dita dalla fame che ho e che tutti teniamo...Da domani poi ci levano anche 50 grammi di pane, così cammineranno i pantaloni... Pane non ce n’è, pasta non ce n’è...diventassi cieca se c’è una goccia d’olio e altro...”; e da Roma nel giugno seguente si dice: “le file incominciano a farle per la frutta e la verdura all’una circa di notte, sicché quando una disgraziata va alle sei della mattina, come faccio io, ritorna a casa alle dodici senza aver portato nulla, con la borsa vuota”.
Sul fronte russo si è da poco consumato il dramma più terrificante, con la disfatta completa dell’ARMIR (gennaio-febbraio 1943) costata non meno di ottantamila morti ed un numero incalcolabile di prigionieri (forse altrettanti di cui la maggioranza morirà per il freddo e l’insufficiente alimentazione) i cui pochi superstiti (qualche migliaio) verranno restituiti all’Italia dalle autorità sovietiche gradualmente, tra il 1946 e la metà degli anni cinquanta. Nel libro di memorialistica Noi soli vivi (1986) di Carlo Vicentini, una delle testimonianze più vivide e commoventi della lunga odissea patita dai soldati italiani imprigionati in URSS, l’autore (originario di Bolzano) scrive: “Dopo quarant’anni l’amarezza per quanto è accaduto non è diminuita. In Russia ho lasciato quasi tutti i miei alpini....Lassù è andata “soto tera la mejo zoventù” delle mie vallate trentine, di quelle friulane, piemontesi, lombarde, delle montagne abruzzesi e tante migliaia di
ragazzi di ogni parte d’Italia. Quei massacri non si dimenticano e non si dimentica che furono inutili”. Se nel buon senso della società civile traspare ovviamente un infinito sconcerto per la tragedia russa, qualcosa filtra anche negli scritti ufficiali della nomenclatura fascista, complessivamente assai reticenti al riguardo. Nel suo Diario Giuseppe Bottai annota: “A Udine, senso diffuso di scoramento per quello che ormai lassù si chiama la “strage degli alpini”. Più o meno copertamente la si addebita a Mussolini. “Abbasso Mussolini assassino degli alpini”, canticchiano a mezza voce i reduci dalla Russia” (26 marzo 1943). Questa pesante sconfitta (impossibile nasconderla sia per le sue dimensioni, sia per le notizie trasmesse da Radio Londra) produce un effetto traumatico e definitivo sull’opinione pubblica.
Narrato con un linguaggio sobrio, dignitoso e funzionale il piccolo affresco corale di Campogalliani restituisce un’umanità ferita e tuttavia piena di un ottimismo, ben poco verosimile, all’interno di un convoglio nel quale i medici e le suore si prodigano per dare la migliore assistenza a tutti. Sulle pareti la presenza di numerose immagini di Mussolini e di Vittorio Emanuele III completano il grottesco quadro di un’Italia fiduciosa nel proprio avvenire. L’atteggiamento è quindi il medesimo che animava i film di propaganda bellica di due anni prima laddove la realtà circostante è tragicamente mutata. Tale operazione cinematografica dunque, per quanto risolta entro i termini di un’apprezzabile semplicità narrativa e di un taglio descrittivo capace di delineare figure ricche di risvolti umani, manifesta nel proprio anacronismo il carattere artificioso e mendace di un cinema illusorio e “terapeutico”, commissionato da un regime in agonia e spudoratamente cieco nei confronti della vertiginosa piega presa dagli eventi.
Dietro il finto documentarismo del Treno crociato si cela dunque una favola bella e superflua: nel loro falso ottimismo e radicale distacco dalla realtà i lavori terminali dell’era fascista assomigliano in modo impressionante alle coeve e successive pellicole della propaganda sovietica.
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http://www.giusepperausa.it/_noi_vivi_-_addio_kira__il_tre.html

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