TÍTULO ORIGINAL
Ai margini della metropoli
AÑO
1953
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
96 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
ASISTENTE
Fernando Birri
GUIÓN
Carlo Lizzani, Angelo D'Alessandro, Alessandro Ferraù, Lamberto Martini, Massimo Mida
MÚSICA
Franco Mannino
FOTOGRAFÍA
Gianni Di Venanzo
REPARTO
Massimo Girotti, Marina Berti, Giulietta Masina, Michel Jourdan, Lucien Gallas, Giuliano Montaldo, Giovanna Ralli
PRODUCTORA
Elios Film
GÉNERO
Drama | Crimen
TRAMA AI MARGINI DELLA METROPOLI
Mario Ilari, giovane operaio disoccupato, è accusato dell'uccisione di una ragazza con la quale ha avuto dei rapporti. Arrestato, fugge e si nasconde in casa di Gina, un'amica, con la quale convive; ma viene nuovamente arrestato. Un'amica di Gina, Luisa, che fa la dattilografa, prega l'avvocato Roberto Marini d'assumere la difesa dell'Ilari. Marini accetta l'incarico, convinto che il processo gli darà modo d'affermarsi come difensore. La situazione dell'accusato, contro il quale stanno gravi indizi, appare critica: gli nuoce la testimonianza di Calì, vecchio vagabondo, che l'ha visto sul luogo del delitto poco prima dell'ora presumibile dell'uccisione. Ilari si protesta innocente: ha rivisto la ragazza per fare, per mezzo suo, la conoscenza di Greta, che doveva facilitargli l'espatrio. L'avvocato Marini si propone d'incriminare Calì come falso testimone, ma questi s'uccide. Le cose si mettono male per Ilari, quando succede un colpo di scena. Si trova il cadavere dell'introvabile Greta; il suo uccisore, che la teneva sequestrata per non essere da lei denunciato, ha precedentemente commesso il delitto, del quale è accusato Mario Ilari. Questi può ora riabbracciare Gina, che ha sposato durante la detenzione, mentre l'avvocato e Luisa si confessano il loro reciproco amore.
https://www.comingsoon.it/film/ai-margini-della-metropoli/22142/scheda/
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Va sicuramente meglio il secondo, misconosciuto film di Lizzani, Ai margini della metropoli (febbraio 1953; 95 min.) complesso racconto giudiziario immerso nell’universo dei miserabili che vivono nelle borgate intorno a Roma, nonché ispirato a un fatto di cronaca dell’epoca (alla sceneggiatura collaborano Massimo Mida, il regista stesso e altri). Mario Ilari (Michel Jourdan) è accusato di avere pugnalato una prostituta sotto un ponte; l’avvocato rampante Roberto Martini (Massimo Girotti), in cerca di notorietà e in procinto di sposare un’altezzosa fanciulla dell’alta borghesia, si accolla il caso: dapprima lo sfrutta senza troppi scrupoli, poi finalmente dà ascolto al poveraccio ingiustamente accusato, a sua moglie (Giulietta Masina) e alla sua amica Luisa (Marina Berti), una modesta dattilografa che finirà per divenire l’aiutante sul campo dell’avvocato e probabilmente sua moglie.
La matassa è ingarbugliata tra false testimonianze (un barbone incastra il falso colpevole per portargli via un pezzetto di terra), un racket di malavitosi che si occupa di espatri clandestini e un universo giudiziario classista e sordo alle ragioni di un uomo qualunque, schiacciato da troppi indizi. Il finale, tuttavia, riserva colpi di scena a ripetizione, sparatorie e la scoperta dei veri colpevoli.
Lizzani se la cava piuttosto bene, sviluppando quel talento narrativo, influenzato dagli stereotipi hollywoodiani, che già era evidente nell’opera prima. L’autore ne è cosciente tanto da far dire a una figurante che Girotti sembra un attore americano. Ma la buona riuscita del lavoro non consiste solo in questo: il ritmo serrato, il gusto per il mystery (gli assassini vengono scoperti solo nell’ultima sequenza) e l’organizzazione a puzzle del racconto (in un andirivieni cosante tra passato e presente, con dettagli che emergono solo gradualmente) si coniugano con un bel gusto figurativo, un occhio attento alla descrizione delle borgate (al punto che si respirano già le atmosfere di Le notti di Cabiria, Fellini, 1957) e una capacità di accostare tipologie umane svariate e non manichee. Infatti se l’universo altoborghese viene tratteggiato con l’abituale disprezzo socialfascista (ossia tipico sia del cinema del regime, sia di quello di sinistra), il mondo dei poveracci non è tutto rose e fiori: ci sono i criminali, gli assassini, i trafficanti, i vagabondi che testimoniano il falso per disfarsi di un concorrente nell’utilizzo di un terreno pubblico e infine ci sono anche i proletari “classici”, “neorealistici” come il protagonista alla perenne ricerca di un lavoro, la sua eroica e fedele moglie, la sua generosa amica dattilografa. Lo spaccato è ben dipinto e avvince, anche quando i troppi tentennamenti dell’avvocato (un bravo Girotti mal servito da un copione con troppe giravolte) - ora attratto dall’universo degli umili, ora da quello dei ricchi, ora nuovamente pronto a giocarsi tutto (fidanzata altolocata compresa) per salvare l’innocente dal carcere - mettono a dura prova la pazienza dello spettatore.
Il quadro viene completato dall’intenso patetismo della colonna sonora di Franco Mannino, il cui calore, tipicamente italiano, contribuisce al riuscito connubio di differenti tradizioni artistiche. Le regole del noir giudiziario americano sembrano infatti acquisire nuova vita allorché immerse nella tradizione melodrammatica, tipica della penisola: semplici schemi narrativi ad effetto si caricano pertanto di un’umanità vera e quotidiana e approdano a una narrazione di notevole intensità emotiva.
La critica “impegnata” dell’epoca, che tanto ha applaudito allo scolastico film resistenziale, non esita a sparare a zero su questo dramma giudiziario, definito “sgangherato” e “falso” (sulla autorevole rivista “Cinema”, n. 112) nel disegno dei personaggi. In realtà è probabile che quella visione così articolata e chiaroscurale dei meandri del mondo proletario, con le sue bassezze e i suoi crimini, sia risultato indigesto agli intellettuali progressisti, sempre pronti a celebrare in modo stereotipato, le presunte qualità degli umili come nettamente contrapposte al presunto cinismo antisolidale dei borghesi.
In ogni caso il fim è un solenne fiasco commerciale ed é tutt’ora una pellicola completamente dimenticata.
http://www.giusepperausa.it/achtung__banditi___ai_margini_.html
Esperienza storica e cinema in Carlo Lizzani
Gualtiero De Santi
1. Cineasta legato alla storia un po’ quasi per definizione – per propria scelta e poetica – sin dai lontani documentari che lo videro avviarsi alla regia e sin dai primi lungometraggi, Carlo Lizzani è stato ed è tuttora anche un critico ed uno storico del cinema. Le tematiche dei film da lui diretti hanno infatti privilegiato – pur se non nell’interezza della sua produzione – le vicende pubbliche della nazione e del nostro popolo, concentrandosi in un primo momento sugli anni compresi tra il fascismo e la ricostruzione del dopoguerra, con un ideale epicentro nella guerra di Liberazione e nella Resistenza, di lì volgendosi verso una linea di tendenza che ha guidato il nostro alla rivisitazione e al recupero di un certo Ottocento (si pensi alle fatiche abbastanza recenti de Le cinque giornate). A riprova – come hanno indicato grandi saggisti e commentatori politici e come, per rimanere nell’ambito del cinema, dimostrò a suo tempo Luchino Visconti – che si debbono e possono rinvenire le radici e persino i nodi irrisolti della questione italiana nel fondamento dato a suo tempo alla nostra unità nazionale.
Ne era consapevole lo stesso Lizzani quando, al momento dell’uscita del Processo di Verona nei primi mesi del 1963, si trovò a sottolineare in un articolo ospitato dalla rivista di Aristarco “Cinema Nuovo” la correlazione esistente tra l’impianto storico e critico del proprio film e quanto egli si aspettava che sarebbe arrivato col Gattopardo di Visconti, ancora inedito e non conosciuto dal grande pubblico.
Da un lato abbiamo dunque il regista, mirante il più spesso a organizzare materiali storici. Ma per altro lato andava in Lizzani sempre più disponendosi e affinandosi il lavoro critico. Un lavoro che in un certo senso antecede persino il suo ingaggio nel cinema e nella regia, risalendo ai primi anni '40, quando egli era ancora un giovane di belle speranze al quale però era arrisa la fortuna di collaborare con testate prestigiose, non soltanto di cinema. Un impegno ostensibilmente mai cessato (ne fanno fede i numerosissimi interventi saggistici e critici, raccolti ad esempio nel volume Attraverso il Novecento, e i diversi libri editi in tanti anni), che avrebbe raggiunto l’apice nel saggio sulla storia del cinema italiano, a diverse riprese aggiornato ma comunque indiziabile in quel non corposo volumetto (172 pagine di testo, seguite da una filmografia e da indicazioni di metodo stilate da Leopoldo Paciscopi e Giorgio Signorini), che l’editore fiorentino Parenti, un benemerito della nostra cultura civile e avanzata, mandò alle stampe nel 1953 chiudendone la realizzazione nel mese di giugno di quello stesso anno. Il titolo che il volume portava era – senza presunzione e senza accademismi – Il cinema italiano. Si voleva un’opera aperta e soprattutto non paludata, che non esibisse dall’inizio le proprie referenze accademiche e scientifiche. Ma quell’indicazione del titolo era poi assai precisa giacché, più che comporre una storia, serviva a dar risposta alle domande che ormai sorgevano in tutto il mondo sulla natura del cinema neorealista.
Un particolare curioso fu che sulla sovracoperta esterna di Lizzani compariva solo il cognome, un po’ alla sovietica o almeno come si faceva nei cast creditdei film provenienti dall’Urss, mentre il risarcimento del nome di battesimo si poteva incontrare sulla copertina e nel frontespizio. Poi, come si sa, approfondendo e accogliendo altri umori e esperienze, e anche allargando l’originario punto di vista, il titolo originale si sarebbe variamente modificato. Così, ad esempio, l’edizione impressa nell’aprile 1979 a cura degli Editori Riuniti recitava espressamente Il cinema italiano 1895-1979 (ma si ricorse in ogni caso anche a Storia del cinema italiano, con il che si rientrava nella norma e nel genere).
Per un cospicuo corso d’anni, in Lizzani, il lavoro del regista e quello dello storico (sia pure con un sale e un piglio critico sempre versati sul presente) sono comunque proceduti in parallelo. Si sono unificati e forse per così dire hanno comunicato nella persona dell’autore, nelle idee da lui professate, in breve nella militanza culturale. Poi ad un certo punto si è visto con piena nettezza come Lizzani, pur continuando a raccontare storie e a fare insomma fiction, piegasse gli strumenti del proprio cinema verso una scelta, o comunque una misura, di tipo storiografico. Nell’esempio appena sopra menzionato de Il Processo di Verona, quello che appariva il concatenamento tra vicenda privata e tragedia nazionale risultò tale da costringere a linee interpretative che non potevano restare indefinite, nel senso che c’erano dettagli importanti del racconto non celabili alla cinepresa, che non dovevano rimanere in sospeso o restare imprecisati per l’economia e il senso narrativi.
Non era soltanto questione di gettare una maggiore luce su tutta una serie di interrogativi e incertezze ancora a quei tempi largamente impregiudicati. Tale, ad esempio, la misteriosa e forse sovrastimata avventura dei diari di Galeazzo Ciano, utilizzati per salvarsi dall’esecuzione capitale come armi di ricatto verso fascisti o nazisti, oppure il ruolo tenuto in quei tragici frangenti dalle diverse personalità, a cominciare da Edda Ciano per venire a Mussolini e ai diversi gerarchi. Ancora alcuni anni dopo, nel 1974, un problema simile si sarebbe ripresentato con un film sempre di stretto impianto storiografico, Mussolini ultimo atto. Dato che il cinema è un’arte della visione e dell’azione fu giocoforza far vedere come fossero stati uccisi il Duce e la Petacci: qui la scelta drammaturgica diveniva la risposta a uno dei quesiti storici su cui più ci si era inquisiti e scontrati nell’ultimo trentennio (e su cui, come si sa, si continua ancora molto a discutere).
Ma, appunto per il senso e le linee del cinema, la macchina formale che ne surcodifica e infine organizza le regole obbligò, nel caso dei film d’impianto storico, a una scelta anche storiografica (del resto presente nel Luchino Visconti del Gattopardo, quantunque pochi dei critici italiani si fossero avveduti che, nell’affresco cinematografico del romanzo di Tomasi di Lampedusa, l’autore milanese aveva fatto largo uso dei più recenti testi della nostra migliore storiografia sul Risorgimento, testi inesistenti nel tessuto connettivo dell’opera letteraria, dove quelle tesi e quelle specifiche notazioni non erano state affatto prese in considerazione).
Se i problemi di un legame tra un pensiero in qualche modo interpretativo e storiografico e la realizzazione di film storici agiscono in Lizzani già apertamente con L’oro di Roma e con Il Processo di Verona, si direbbe più rilevante e sintomatico quanto avvenne in seguito. Allorché in un qualche modo gli capitò di superare le soglie fluide del racconto di finzione, da cui in fondo avevano ricevuto connotazione i suoi maggiori film del decennio '50–'60, da Achtung! Banditi! a Cronache di poveri amanti sino a Il gobbo, per approdare ad uno standard sia rosselliniano, sia un po’ documentaristico. Penso a quei film che raccontano la vita e le convinzioni ideali di grandi personalità del secolo passato. Tale ad esempio il film del 1986 su Giorgio Amendola (Un’isola). Tuttavia il passo ulteriore e definitivo, su cui alla fine si sarebbe saldato tutto – il cinema e la storia, la storia del nostro paese e quella del cinema italiano (e che anzi fa del nostro cinema a cominciare da Roma città aperta lo specchio esatto delle nostre vicende nazionali) – fu quando Carlo Lizzani si diede a realizzare i suoi ritratti d’autore. Quelli di Rossellini, di Luchino Visconti, di Cesare Zavattini; poi i tanti realizzati per il Museo del Cinema di Torino su personalità grandi e piccole della nostra cinematografia. Così in conclusione, per il regista romano fare storia del cinema dirigendo film storici e portando sullo schermo personaggi prima comuni (i partigiani di Achtung! Banditi! o i cornacchiesi della Firenze di Cronache di poveri amanti), poi appartenenti alla storia ufficiale, da Mussolini sino al dirigente rivoluzionario Bucharin in Caro Gorbaciov, ha avuto lo stesso significato di delineare quella che era ed era stata la storia del cinema. Prima tracciandola e argomentandone gli snodi nei libri e nelle riviste, indi trasportando in un qualche modo la scrittura saggistica sul grande schermo, facendola insomma divenire scrittura cinematografica. Da un lato abbiamo film storici come Fontamara, pur con tutto il suo portato romanzesco, o come Il Processo di Verona oppure L’oro di Roma; dall’altro pellicole sulla storia del cinema come Celluloide.
È forse dirigendo per il grande schermo il libro di Ugo Pirro sulla nascita di Roma città aperta, il film-manifesto del neorealismo, costruendo cioè un racconto intorno ad un film – quello di Roberto Rossellini e Sergio Amidei – che era sì di finzione, ma avvertito e sentito da tutti alla stregua di una rappresentazione oggettiva degli anni dell’occupazione e della guerra, che a Lizzani deve essere venuta in mente l’idea di excursus e medaglioni filmati sulla straordinaria vicenda del nostro cinema dal dopoguerra a tutto il trentennio-quarantennio successivo. Affidati però – e questo è il fatto – alla scrittura non unicamente della penna ma altrettanto della cinepresa.
Insomma, per Carlo Lizzani fare storia col cinema ha voluto dire anche raccontare la storia del nostro cinema con l’ausilio e il tramite dell’occhio cinematografico.
2. Forse non è propriamente intorno al cardine del realismo e nemmeno in senso stretto del neorealismo, che ruota l’asse del discorso di Lizzani. Si può invece individuare la più importante carta d’identità formale della sua produzione, sia critica che creativa, in una peculiare difesa di una linea civile del film cui la storia per sua parte concorre. Ben ovvio che, su questa posizione, l’influenza di maggior forza sia stata quella della corrente neorealistica (usiamo intentivamente tale formula perché non crediamo nella definizione che individua tanti neorealismi in ciascheduno degli autori maggiori o intermedi: pur nello svolgimento a confronto e a divario, non solo stilistico, ricorrono evidentemente in questi autori comuni e condivisi denominatori formali). Del resto Lizzani, che ha sempre ostacolato con l’arma della riflessione il processo di revisione che al riguardo è venuto divampando nella critica italiana dopo il lontano e per noi sorpassato convegno di Pesaro del settembre 1974, è tornato su tali questioni con la consueta lucidità a diverse riprese. Ultima delle quali l’articolo scritto in ricordo di Alberto Lattuada per la rivista “Libero” legata al Premio Bizzarri: «Non voglio qui allargare il discorso al tema più generale dell’identità stessa del movimento neorealista. Da decenni insisto sugli aspetti di rivoluzione formale, oltre che di contenuti, del movimento, relegando nell’aneddotica le tante motivazioni contingenti che certamente ne aiutarono la nascita: i pochi mezzi a disposizione, la mancanza di teatri di posa ecc.».
La tensione e gli ideali anche formali del dopoguerra e degli anni '50 – con un cinema che si vuole espressivo della totalità del popolo e della società, in grado di recare contributi essenziali alla crescita del paese e alla sua riconoscibilità attraverso la cultura – compongono per così dire una delle cellule armoniche dell’opera di Lizzani, pur con i sostanziali e in certi casi decisivi cambiamenti intervenuti nel quarantennio successivo e con quella varietà di tematiche e stili che ne hanno connotato il lavoro. Avendo egli infatti praticato se non tutti almeno numerosi generi, dalla commedia al dramma al western, dal documentario al film storico, sino alle cronache filmate quasi in presa diretta nel cosiddetto instant movie.
Se gli intendimenti e le speranze degli anni d’avvio hanno offerto anche a Lizzani vari pretesti di figura per i suoi film maggiori e per i tanti non realizzati, quelle attese hanno pur dovuto confrontarsi con la realtà della macchina cinematografica e del potere economico e politico. L’emarginazione che gli venne comminata negli anni '50, pur dopo i successi di Achtung! Banditi! e soprattutto di Cronache di poveri amanti, venne in seguito superata. Prima facendo vedere – con Lo svitato, una commedia del tutto fuori riga e decisamente innovativa, e insieme con un documentario bello e ben godibile quale fu La muraglia cinese – le capacità conquistate sul piano del lavoro di regista e narratore di storie. Poi anche registrando e imprimendo nel proprio lavoro le variazioni e le crisi del nostro cinema, ma anche aiutandone, o almeno seguendone da presso, le trasformazioni.
L’opera di Lizzani, dalla metà degli anni '50 e poi dagli anni '60 in avanti, ha certo tradito l’esigenza e la foga di un costante adeguamento alle novità. Si potrebbe anche pensare con qualche probante ragione – e del resto è stato detto – che il suo impegno anche ideale abbia infine rinvenuto una propria ubicazione nel mestiere e nelle propensioni etiche della regia. Laddove all’opposto la pratica mai abbandonata della scrittura saggistica e critica poteva essere più sciolta dai lacci delle esigenze produttive e contingenti e, magari, continuare ad agire se non oppositivamente quantomeno criticamente.
Eppure è anche nel cinema vivo e vissuto, nell’impegno della realizzazione dei propri film pur nel dedalo delle regole e delle costrizioni, che Lizzani si è mostrato non libero ma sicuramente non conforme e omologato alle dominanti linee culturali. Già la vicenda di Alvaro, il gobbo del Quarticciolo, raccontata appunto ne Il gobbo, stava in netta difformità dalle regole del film resistenziale raccontando un caso di delinquenza banditesca insorto sul ceppo della guerra di liberazione: un caso, si sarebbe potuto dire dopo, di deviazione che offriva già materia di riflessione se non al revisionismo storico certo a una diversa considerazione storica.
Lo scarto più forte e radicale avviene nondimeno con Il Processo di Verona. La parola d’ordine della storia inverata e calata in un corpo collettivo non vi è disattesa, ma viene in parte traslata in un dramma di corte dalle cupe note shakespeariane. Lizzani concede il primo piano a personaggi familiari al grande pubblico e ad un pubblico avveduto e politicizzato: Rachele Mussolini, il di lei consorte, il genero Galeazzo, la figlia Edda. Non era mai accaduto in un’opera italiana, se non nei film di costume e ottocenteschi (da Scipione l’africano a Camicie rosse, per intenderci). Insieme alla notorietà delle figure principali e dei comprimari, furono le sottolineature in primo piano dei volti e dei gesti, determinate appunto dal cinema, a costringere a un tipo di introspezione psicologica, e insomma di partecipazione che in parte parve rasentare l’ambiguità.
La scoperta e la lezione del film è che la storia anche quotidiana non fluisce nel solco della prevedibilità dialettica o pseudodialettica. Quasi essa, e il racconto che la sorregge, si prendessero gioco dell’ovvietà. Qualcosa di affine si sarebbe poi ripresentato col successivo La vita agra, tratto dal libro anarchico e disperato di Luciano Bianciardi tuttoché travasato nei gradienti di una commedia all’italiana dal tono temperato che non si nega nel finale un guizzo apocalittico. Anche le pellicole sul neo-gangsterismo metropolitano (da Svegliati e uccidi a Banditi a Milano) e quelle sulla delinquenza e devianza sociale in ambito rurale e isolano (Barbagia), si sottraggono palesemente alle regole del “politically correct”. Nel senso che lo schema ormai corrivo e facile dell’identità tra banditismo e ribellione sociale, che era stato imperante nel dopoguerra e negli anni '50 (da Il lupo della Sila a Non c’è pace tra gli ulivi, da La città si difende allo stesso secondo film di Lizzani, Ai margini della metropoli) e anche negli anni ‘60 (Banditi ad Orgosolo, Il brigante) e poi nei parametri della contestazione, viene forzatamente abbandonato a favore di un modello sociologico, e dunque anche interpretativo, che risulta ben differente.
Nella mutata vita metropolitana cambiavano le regole fondamentali di convivenza; stava avanzando il consumismo; cadeva la solidarietà dei decenni antecedenti, mentre apparivano fenomeni nuovi che non potevano venir spiegati con le regole dell’emarginazione e della povertà. I film di Lizzani del periodo vennero così avversati da certa critica di ultrasinistra (penso ad esempio alla rivista “Ombre rosse”) per il loro coraggioso punto di vista. Questa vocazione un po’ controcorrente avrebbe avuto seguito in Fontamara, dove l’assunzione del tema dell’affrancamento sociale e anche certa proclività all’illustrazione escludono perentoriamente il modello millenaristico e palingenetico – e anche ingenuamente populista – di Silone; poi sarebbe tornata nei film sul terrorismo politico, fenomeno che Lizzani fu tra i primi ad affrontare al cinema, persino nelle strutture degli instant movies. In un qualche modo anche i medaglioni filmici sui protagonisti maggiori e minori del nostro cinema, segnatamente i due su Rossellini e Visconti, non seguono le usuali trafile e le consuete modalità interpretative.
Una tale attitudine non si direbbe in Lizzani predeterminata, ma invece quasi rinvenuta sul campo, nel vivo della realtà e delle contraddizioni messe sotto l’occhio della cinepresa. Il gobbo non è infatti aprioristicamente un film di deviazione nella resistenza (o se lo è, sembra più un film gangsteristico all’americana ambientato tra guerra e dopoguerra in un quartiere di Roma). Né gli instant movies presuppongono un punto di vista preventivo dell’autore. Come negli anni '50 non c’era in Lizzani prospettivismo, così nei decenni successivi lo schema valutativo ed espressivo, e dunque anche storico, non si affida a un movimento risolto e condizionato.
Il fatto è che il regime di segni del cinema lizzaniano, pur nella conformità alle sceneggiature e nel complessivo disegno di una regia esecutiva e inscenante, traccia nel proprio divenire – e nel divenire delle immagini – un proprio piano di consistenza, in contrasto appunto con le più ovvie risoluzioni, ma in stretto legame con un livello di complessità percepito emozionalmente. Alvaro il gobbo non è insomma sempre buono perché proletario e combattente, né Edda Ciano e Claretta Petacci (quest’ultima in Mussolini ultimo atto) sono creature dell’orrore e della crudeltà quantunque abbagliate dal fascismo e di esso indubbie complici.
A un primo livello di enunciazione affidato allo scenario (ai cui lavori Lizzani assai spesso prende parte), fanno seguito le riprese. È a questo punto che il cinema si interna nelle cose. Ed è lì che mutano le intenzioni di partenza. Come se all’assicurazione concessa da soggetto e sceneggiatura elaborati in collaborazione con solide figure professionali (tra le quali spicca Ugo Pirro), e regolati dalla stessa figura e ideologia del regista, facesse poi riscontro l’ingresso in un territorio aperto e in una linea di discorso impregiudicata e nuova. Un po’ appunto secondo quei modi rosselliniani, che Lizzani ben conosceva e che aveva sperimentato ai tempi di Germania anno zero.
Non voluta ma connaturata alla personalità di Lizzani, questa maniera di procedere si modella sulle caratteristiche entro cui si sviluppa il processo di preparazione del film e poi delle specifiche riprese. Potremmo addurre gli esempi de La muraglia cinese e de L’oro di Roma. Nel primo caso ciò che un qualunque semiologo (Deleuze o Parnet) avrebbe potuto designare sotto la formula di un concatenamento tra desiderio e enunciazione, subisce lo scacco della realtà. La voglia infatti di abbozzare un’opera che descrivesse un paese accerchiato e isolato dall’imperialismo ma nobilitato dalla sua operosità, deve fare i conti con le chiusure di una burocrazia implacabile e cieca. Il più durevole vestigio che lasciò a Lizzani l’esperienza de La muraglia cinese, fu l’utilizzo di una criticità applicata al comunismo reale ma poi altrettanto all’ideologia. Viene in questo modo anche aperta la strada al Gobbo e congiuntamente a Il Processo di Verona.
L’ulteriore esempio è quello de L’oro di Roma. Pochi erano stati i film – in Europa ma ancor più in Italia – che avevano raccontato l’odissea degli ebrei. Quel che oggigiorno, invadendo integralmente il proscenio della memoria storica sugli anni di guerra, viene definito impropriamente Olocausto, negli anni '50 e '60 era avvertito soltanto come un momento della complessa vicenda bellica e della lotta al nazi-fascismo.
Se il merito di Carlo Lizzani è stato di affrontare – primo tra i registi italiani di qualità dopo il Gillo Pontecorvo di Kapò, apparso appena l’anno precedente – le vicende di una comunità ebraica, il lavoro di organizzazione del film e la concreta messinscena hanno evidenziato le non poche reticenze e anche le contraddizioni della comunità israelita romana. L’elegia sulle vittime dell’intolleranza e del razzismo non delinea insomma, per converso, una quadratura del tutto limpida della parte perseguitata. Il gesto effrattivo e in questo senso complesso della vita reale – che Lizzani sempre coglie – taglia infine fuori ogni prospezione ideologica. La scrittura oscilla sempre su margini di imprevedibilità. La storia di prima linea e ufficiale cede il posto a una cronaca che si miniaturizza in un dedalo di simultaneità tra le persone concrete e i vortici del quotidiano. E anche questo, diremmo, appartiene alla forza inventiva e intellettuale di Carlo Lizzani, alla sua idea di storia.
http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=I12006&id=23
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