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miércoles, 2 de diciembre de 2020

Napoli che canta - Roberto Roberti (1926)

 
TITULO ORIGINAL
Napoli che canta
AÑO
1926
IDIOMA 
(Película muda)
SUBTÍTULOS 
Español
DURACIÓN
30 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Roberto Roberti
FOTOGRAFÍA
(B&W)
REPARTO
Documental (intervenciones de: Rodolfo De Angelis, Adolfo Della Monica, Tecla Scarano)
PRODUCTORA
Coproducción Italia-Argentina; Establecimientos Filmadores Argentinos
GÉNERO
Documental | Mediometraje. Cine mudo

Sinopsis
Escenas de la vida cotidiana de Nápoles, donde la gente canta en cualquier ocasión: cuando está triste, cuando está contenta, en las celebraciones, con el cambio de cada estación, al emigrar en busca de sustento... pero también cuando las injusticias de la política castigan a quien no lo merece.
 
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Un canto di gioia e di dolore

Contrariamente alle abitudini festivaliere che vogliono una pellicola di recente produzione dare il via alle danze della kermesse di turno, il direttore artistico Felice Laudadio e la presidente Margarethe von Trotta hanno deciso di aprire la decima edizione del Bif&st con una piccola perla del passato che porta una firma di grande prestigio. Si tratta di Napoli che canta di Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, che per chi non lo sapesse altro non è che il padre del più noto e celebrato Sergio Leone.
La pellicola del cineasta di origini irpine, la quintultima di una filmografia che conta una sessantina circa di titoli, è stata presentata nella splendida cornice del Teatro Petruzzelli durante la serata inaugurale della manifestazione barese, accompagnata dal vivo dalla straordinaria voce di Lina Sastri. Alla cantante e attrice partenopea è toccato l’onore e il piacere di fare rivivere sullo schermo (da dove mancava dal 18 ottobre 2003, quando andò in scena al Teatro Zancanaro di Sacile nell’ambito delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, con canzoni eseguite da Giuni Russo) le note e i testi di un’opera considerata da molti addetti ai lavori il canto del cigno di un genere di rappresentazione che voleva film muti come questo accompagnati da un interprete che aveva il compito di cantare la canzone portante durante la proiezione del film. E così è stato anche questa volta, con le emozioni che non sono mai venute meno nei 33 struggenti e rievocativi minuti che delimitano la timeline.
Quello che abbiamo potuto rivedere al Bif&st è un film che punta tutto sul fattore emotivo e che conduce lo spettatore in un viaggio in una Napoli musicale, bella e vivace, quella del 1926. Un tour fatto di immagini suggestive (splendidamente virate o colorate al pochoir) di una città che non esiste più, dove si affacciano musicisti di strada intenti a cantare e suonare. Ma sotto questa superficie gioiosa, antropologica e folkloristica scorre un’anima fortemente drammatica e accusatoria, la stessa che all’epoca ha condannato il film a un lungo oblio e a una misteriosamente scomparsa. Il motivo è facilmente intuibile ed è legato al fatto che il mediometraggio di Roberti non decantava la forza del regime fascista ma mostrava – oltre a splendide immagini della città e a ritratti della vita dell’epoca e dell’importanza della musica nella cultura napoletana – un drammatico controcampo, rappresentato dalla miseria di chi era costretto a emigrare per cercare altrove una vita migliore. Particolarmente significativa, in tal senso, la sequenza finale che mostra un gruppo di musicisti salire su una nave diretta all’estero e il profilo di una donna sulla spiaggia con un bambino in braccio guardarla dissolversi all’orizzonti. Ecco dunque quel che avrebbe potuto davvero aver dato fastidio a Mussolini: un film che non celebra una Napoli da cartolina, ma prende spunto dalla tradizione del canto napoletano per evocare un sentimento di protesta contro la condizione dell’Italia del tempo. Il clima sempre più ostile al regionalismo del regime ne rese il percorso distributivo in patria sempre più proibitivo sino all’esilio forzato. Solo in anni recenti, infatti, una copia in doppia versione, in italiano (e in parte in napoletano) e inglese, destinata evidentemente al pubblico d’oltre Oceano, è stata recuperata in California. Nel 2000, infatti, Elinor Leone, una discendente del regista, ha donato la suddetta copia del film alla George Eastman House che ne ha completato il restaurato nel 2002 sotto la guida attenta Paolo Cherchi Usai.
La particolarità di Napoli che canta è che non mette in scena una storia vera e propria, drammaturgica e narrativamente definita e lineare come avveniva normalmente nella sceneggiata, ma traspone per immagini, spesso con un eccesso di didascalismo, i testi delle canzoni più celebri appartenenti al ricco repertorio della tradizione campana. Il resto della timeline è costituito di una ricchissima galleria di scorci, caratteri, personaggi e luoghi filmati in modalità documentaristica di quel che restava della icona napoletana. La semi-fiction delle canzoni, qui interpretate da divi del cinema muto come Tecla Scarano, Rodolfo De Angelis e Adolfo della Monica, si mescolano con le riprese realistiche alternate secondo un criterio espressivo per creare un’atmosfera. Il risultato è una sorta di grande raffigurazione in cui ogni quadro recitato, ogni ripresa, ogni fotogramma rappresenta un’ideale tessera di un mosaico che concorre a disegnare l’insieme: ossia la natura viva e al contempo morta di una città divisa tra passione e dolore, bellezza e orrore latente.

Francesco Del Grosso
https://www.cineclandestino.it/napoli-che-canta/ 


Nella primavera del 2000 la George Eastman House ricevette una lettera da un'anziana signora residente in California. Il suo messaggio scritto a mano faceva riferimento a tre bobine di pellicola in nitrato, apparentemente trafugate alla fine degli anni Venti da un parente italiano nel timore di una rappresaglia da parte di Mussolini. La copia veniva offerta al museo a titolo di donazione. Ma il suo titolo - The Song of Naples - non aveva alcunché di controverso. Perché mai il regime fascista avrebbe dovuto prendersela tanto con un innocuo esercizio di folclore su celluloide?In ogni caso, un'offerta presentata in termini così inusuali non poteva essere rifiutata. Le tre bobine furono inviate alla George Eastman House, e subito identificate: Napoli che canta, per la regìa di Roberto Leone Roberti. La copia era tuttavia in condizioni così precarie che non c'era alcuna possibilità di consultarla così com'era, e dovettero passare altri due anni prima che la misteriosa allusione della donatrice diventasse un'ipotesi concreta. All'inizio, il film sembra in effetti un lavoro affascinante ma non certo di carattere polemico: ci sono bellissime immagini (splendidamente virate o colorate al pochoir) di una Napoli che non esiste più, e ci sono scene di musicisti di strada intenti a cantare e suonare. Tuttavia, con il passare dei minuti, il tono delle didascalie diventa sempre più struggente: si dice che i napoletani cantano anche per sopportare la miseria della loro condizione; a un certo punto si afferma addirittura che forse la musica è il loro modo per parlare con Dio.L'ultima sequenza mostra un gruppo di musicisti che salgono su una nave diretta all'estero. Sono costretti a emigrare, e una delle inquadrature finali rivela il profilo di una donna sulla spiaggia, con un bambino in braccio. Guarda lontano, verso quella nave che si sta allontanando per sempre dall'Italia. Ecco dunque quel che avrebbe potuto davvero aver dato fastidio a Mussolini: un film che non celebra una Napoli da cartolina, ma prende spunto dalla tradizione del canto napoletano per evocare un sentimento di protesta contro la condizione dell'Italia del tempo. L'anziana signora che aveva affidato il film alle cure di una cineteca non aveva dunque creato la sua storia di sana pianta, o almeno essa appariva ora meno improbabile. Anche perché quel messaggio dalla California proveniva da una donna di origine italiana. Si chiama Elinor Leone, ed è una discendente del regista, Roberto Leone Roberti, dunque una parente di Sergio Leone.Questa vicenda, di per sé inconsueta, ha un'appendice non meno sorprendente. La copia di Napoli che canta ritrovata negli Stati Uniti ha didascalie in italiano e in inglese, segno evidente che il film era stato mostrato a un pubblico di immigrati. Nel luglio di quest'anno la George Eastman House ha recuperato gli archivi di Michael Ruggieri, un distributore specializzato nella diffusione di film italiani a New York. Fra le molte casse piene di manifesti, foto di scena, lettere, programmi e locandine - un autentico tesoro di documentazione su un episodio dimenticato dell'esercizio cinematografico per le minoranze etniche negli Stati Uniti - ci sono materiali pubblicitari su Napoli che canta (e se fosse stato proprio questo Ruggieri ad aggiungere le didascalie inglesi alla copia ritrovata?). Anche questi preziosi e fragili documenti, depositati per decenni in un umido scantinato e perciò danneggiati dall'umidità, sono ora in fase di restauro.Da molti anni nutro una grande ammirazione per Giuni Russo, e ho sempre pensato che la sua splendida voce di soprano sarebbe il complemento ideale per un film muto, con o senza musica napoletana. Grazie all'aiuto di Maria Antonietta Sisini e del cantautore Aurelio Fierro - ben noto agli appassionati di canto napoletano - Giuni ha raccolto tutte le canzoni menzionate in Napoli che canta e le ha arrangiate in una suite in cui si celebra la bellezza e la malinconia della storia vera raccontata nel film. La sua partecipazione a questo progetto rappresenta un omaggio a tutti coloro che sono stati costretti ad abbandonare un paese oppresso dalla povertà e dalla dittatura, e - per quanto mi riguarda - la realizzazione di un sogno inseguito per anni: sentir cantare Giuni Russo in persona, davanti allo schermo delle Giornate del Cinema Muto. - 

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