Il sospetto
AÑO
1975
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
105 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Francesco Maselli
GUIÓN
Francesco Maselli, Franco Solinas
MÚSICA
Giovanna Marini
FOTOGRAFÍA
Giulio Albonico, Sebastiano Celeste
REPARTO
Gian Maria Volonté, Annie Girardot, Renato Salvatori, Gabriele Lavia, Bruno Corazzari, Guido De Carli, Felice Andreasi, Antonio Casale, Daniele Dublino, Pietro Biondi
PRODUCTORA
Cinericerca
GÉNERO
Radiato nel 1932 dai quadri del Partito comunista per aver espresso dissenso nei confronti della linea politica, Emilio due anni dopo chiede al Centro estero di Parigi di essere riammesso. Viene allora sottoposto ad una serie di colloqui con alcuni compagni. Cooptato dal Comitato Centrale, è mandato a Torino con l'incarico di individuare una spia presente nel direttivo locale del Partito. L'Ovra, che aveva seguito passo passo Emilio tra Francia e Italia, imprigiona tutti i compagni del direttivo.
La produzione dovette modificare il titolo originale, II sospetto, in Il sospetto di Francesco Maselli a causa dell'intervento della casa di produzione americana RKO la quale pretese che Il sospetto restasse in esclusiva il titolo del film realizzato da Alfred Hitchcock nel 1941 (Suspicion).
«Ho girato Il sospetto perché in quel periodo, negli anni Settanta, mi interessava raccontare come le divisioni interne alla sinistra avrebbero potuto portarci a una sconfitta. La storia poteva essere ambientata solo a Torino, su questo io e Solinas fummo d'accordo fin dal primo momento. Torino era l'unica città dove la sinistra comunista, anche negli anni più bui del fascismo, ha sempre mantenuto una sua struttura clandestina che operava realmente e che aveva cellule nelle fabbriche. II fascismo lo sapeva e concentrava sulle fabbriche torinesi la sua massima attenzione e, d'altro canto, le divisioni dentro la sinistra potevano dare al fascismo un grosso aiuto. Mentre stavamo girando il film alloggiavamo all'albergo Sitea e lì incontrammo Paola Borboni, che era già molto anziana ed era una vera e propria icona dello spettacolo italiano. Ebbi un colloquio con lei, mi chiese la storia del film, fece delle osservazioni molto sensate, mi fece gli auguri e se ne andò: non ricordo un'altra donna capace di essere così magnetica anche solo in un saluto. Nel cast c'erano due torinesi come Gian Maria Volontè e Felice Andreasi, due bravi attori e anche due persone intelligenti, capaci di darmi indicazioni e suggerimenti per quanto riguardava il modo di vivere degli operai» (F. Maselli, in D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, a cura di, Torino città del cinema, II Castoro, Milano, 2001).
Opera chiaramente politica, Il sospetto sfrutta per le sue finalità i caratteri del genere poliziesco in una storia di delatori nella Torino anni Trenta, scritta splendidamente da uno dei maestri della sceneggiatura italiana, Franco Solinas. Francesco Maselli con questo film si inserisce nel dibattito interno al Partito Comunista degli anni Settanta, tratteggiando l'attività positiva e gli errori dei Comunisti nell'epoca fascista senza travisare la verità storica. Il sospetto appare in equilibrio tra le ragioni "commerciali" dell'intreccio narrativo e quelle dell'analisi politica di un periodo della storia italiana. L'accuratezza dell'ambientazione in una Torino anni Trenta chiusa e fredda nelle geometrie fasciste di una buona parte del centro storico, ben collima con le tensioni e ì sospetti di fascisti e antifascisti. Alcuni di luoghi principali della città (la basilica di Superga, il parco dl Valentino, il Museo Egizio) fanno da sfondo alla ricerca della spia da parte del protagonista, un Gian Maria Volontè misurato e attento a non eccedere in istrionismi.
«Il merito del regista di fronte a questa vicenda politica così ristretta e individuale è stato [...] di privilegiare il momento esistenziale su quello storico. Emilio è prima di tutto un uomo che rischia la vita per la causa in cui crede; e poi, non necessariamente, il militante comunista italiano degli anni Trenta. Tuttavia Maselli ha saputo ricostruire la dimensione storica coi mezzi propri dell’arte ossia in maniera implicita e indiretta. Così non è nelle spiegazioni ideologiche della dirigente Teresa che noi cercheremo la storia; né nella rivelazione del funzionario dell’Ovra; bensì nella realtà quotidiana che Maselli ci fa vedere come guardata dagli occhi di Emilio. Sono strade, giardini, stazioni, ambienti privati e paesaggi di Parigi e di Torino visti, come dice Rimbaud in un suo poema in prosa, “attraverso l’idea” di Emilio. Un’idea necessaria tetra, ossessiva e opprimente; ma come poteva essere altrimenti in un tempo in cui la scelta era, appunto, tra due dittature di classe, e la storia era sinonimo di angoscia?» (A. Moravia, “L’Espresso” n. 11, 1975).
«Il Sospetto di Francesco Maselli [...] sta suscitando un vespaio di polemiche. Pare interessi soprattutto gli studenti che da qualche anno hanno cominciato a conoscere la storia del Pci dai libri. Ma dicono che anche il pubblico borghese ci trovi la sua parte: il Pci è “di moda”, emana “odore di potere” e il film, fino a metà, è costruito come un teorema ideologico, e poi diventa quasi un giallo di spionaggio. Si aggiunga la minuziosa, quasi compiaciuta, ricostruzione ambientale. Insomma: politica, brivido e nostalgia» (V. Riva, “L’Espresso” n. 10, 1975).
«La prima affermazione che voglio fare è che, in questo film, ci riconosciamo. E, riconoscendoci, pensiamo che se il pubblico vede nel Sospetto di Maselli un Pci di duri, non lo consideriamo un fatto negativo. La durezza era la nostra vita quotidiana. Ma è vero che il rigore rese i comunisti più spietati? [...] io ero spietato, non verso di me, ma verso mia madre, quando andai a prendermi vent’anni di galera. Questo “rigore fino alla unilateralità” che ognuno di noi poi esaltava in se stesso, è un fatto che noi testimoniamo. Questo è stato il partito comunista. Non per infatuazione, o perché in quel momento prevaleva lo stalinismo. [...] Caso mai, se ho un’obiezione da fare al film di Maselli, è che trovo che a quell’epoca nessuno di noi avrebbe mai pensato a fare ante critiche e tante polemiche come fa Emilio [...]. Emilio non è stato giocato, è stato adoperato. Adoperato come se gli avessero affidato una tipografia o fatto distribuire un manifestino, insomma uno dei tanti lavori che servivano a costruire la trama che tessevamo per gli anni a venire» (G. Pajetta, “L’Espresso” n. 10, 1975).
«Noi comunisti pensavamo che la situazione politica esigesse un ritorno in Italia del partito, la formazione del cosiddetto “centro interno”. Purtroppo pensavamo e prevedevamo sbagliato. E perché le nostre previsioni fallirono? Perché la crisi economica in Italia non si trasformò in crisi politica. Il regime la controllò. La nostra azione si scontrò con una realtà più immobile e resistente di quanto pensassimo. Da qui nacque la polemica. Si disse: inviando i quadri del partito in Italia, si rischia di distruggerli. Io penso invece che noi riuscimmo, anche in quel modo, ad affermare la nostra presenza nel paese. Ed era già una vittoria. D’altra parte i dirigenti che venivano inviati in Italia si prospettavano tutti (e con molta maggiore serenità di quanto non si veda nel film) l’ipotesi di venire arrestati. Era solo una questione di maggiore o minor fortuna. Ma non eravamo mica degli imbecilli: eravamo gente che sapeva che l’arresto non voleva dire distruzione ma solo passaggio in carcere; e passare in carcere voleva dire passare ad un diverso tipo di attività organizzativa che ha avuto una sua fondamentale funzione di educazione» (G. Amendola, “L’Espresso” n. 10, 1975).
«Una delle critiche che farei è che è un po’ troppo dentro la disciplina di partito e un po’ troppo fuori della storia. Per esempio, il protagonista dovrebbe rappresentare lo spirito critico. Ma quando Teresa gli espone certe brutali equazioni dello stalinismo come: l’opposizione è il nemico, quindi il nemico è uguale al fascismo, lui tace, non ribatte niente [...] dal film viene fuori solo la giustificazione della necessità storica, santificata fino a diventare Provvidenza. La storia non va santificata. Va analizzata. [...] Io dico che Stalin ha sbagliato e aveva ragione Bukarin. Ma Stalin ha vinto e ha distrutto Bukarin. Non è la logica politica che ha trionfato, ha trionfato la violenza e il potere» (G. Bocca, “L’Espresso” n. 10, 1975).
«Sulla questione delle norme cospirative, il partito, secondo me, aveva completamente ragione. Il grave è che non era la vigilanza, ma il tipo di ideologia che c’era sotto, l’ideologia [...] affetta da schematismo, dottrinarismo da non aderenza alla realtà italiana, il suo credere il fascismo trionfante e non vedere invece che all’interno del fascismo c’erano maglie larghissime…» (A Natoli, “L’Espresso” n. 12, 1975).
«Uno schema narrativo di precisione e di rigidità quasi geometriche, "gialle", come quello del Sospetto, dovrebbe venir affrontato in modo più didascalico, accentuandone gli aspetti emblematici, mentre invece Maselli, per ricreare un'epoca e la sua cappa, finisce per diluire questo schema in interminabili passeggiate e interminabili discorsi. Quanto si cammina per Parigi, Torino, Milano in mezzo a folle cartelloni luci d'epoca, e quanto si parla in questo film! Paradossalmente la scena più bella è muta: quella sintetica e tesa di un Museo Egizio che riesce a rinchiudere in un'immagine e in un semplice movimento di macchina il clima dell'Italia fascista. [...] Tuttavia il fatto di descrivere, da noi per la prima volta, una storia e una pratica politica come quella del PCI negli anni Trenta, non è anche questo merito da poco, e si dovrà soprattutto discutere su quello che se ne ricava. Un'epoca tragica della lotta politica, il '34, in patria gli "anni del consenso" raggiunto attraverso le speranze dell'autarchia e della politica coloniale, e gli anni di Stalin, Hitler, Roosevelt fuori, coi Fronti Popolai ancora da venire, e nel partito una rigidezza che è, da un lato, obbligata, dall'altro il segno di una linea "dura" che lo stalinismo va imponendo. [...] II partito, dice la militante Teresa, ha più bisogno di disciplina che di dibattito, e il protagonista è spedito in Italia, è "usato" a sua insaputa e a sua insaputa di fatto consegnato alla galera, ma ad majorem gloriam del partito e del suo funzionamento. [...] Maseli e Solinas finiscono comunque per fare anche loro l'elogio del partito soprattutto, e per prepararsi a seguire anche le direttive meno convinte a nome di questa "ragion di partito". Scavano in un passato magari scomodo per la dirigenza attuale, ma che è alla fin fine a sua maggior gloria anche questo, perché finisce per nobilitarla, non fosse che nel suo albero genealogico, e per dire che, anche se i dirigenti sbaglieranno, il militante li seguirà, perché fuori del partito non c'è salvezza. [...] È un film apparentemente critico verso lo stalinismo, di cui accetta la logica di fondo» (G. Fofi, "Quaderni Piacentini" n. 56, poi in Capire con il cinema, Feltrinelli, Milano, 1977).
«Forse questo film sarebbe stato impensabile nel panorama cinematografico di qualche anno fa ma adesso anche il circuìto commerciale ha le sue permissività ideologiche. Basta che il nome di Volontè addolcisca la piaga e i noleggiatori sono pronti a fare lieta accoglienza ad una pellicola prodotta dall'industria di Stato e incline alla meditazione storiografica» (S. Reggiani, "La Stampa", 24.6.1975).
«Film squisitamente "politico", che trascende di molto l'interesse soltanto cinematografico: come prova il fatto ch'è stato subito oggetto di disamine, dibattiti, "tavole rotonde", anteprime e consimili trattamenti di riguardo. [...] Dice moltissimo ai giovani; e agli anziani che lo abbiano vissuto sia pur passivamente, restituisce fedelmente il clima di quel periodo "eroico": quando gli uomini erano di gran tempra, e studenti giovanissimi o poco più che ragazzi, quali Ginzburg Pajetta Foa Mila e altri (compagni di scuola a chi scrive) attestarono coi fatti, col sostenimento il confino e il carcere, la fede nella libertà. [...] Come è stato osservato, Il sospetto sostituisce alla "ragion di Stato" la "ragione di Partito"; e ne sostiene anche con sottilissime disquisizioni, la piena legittimità. Ora non si nega che un tale assunto non spanda un certo freddolino per la schiena [...]. Detto questo sull'ideologia, il film quanto film, è fatto molto bene (forse il migliore di Maselli), e non solo per ragioni strettamente cinematografiche [...] ma per il respiro che il regista ha saputo infondere nella ricostruzione di quegli anni e di quegli ambienti, di una Torino soprattutto, che anche a lasciarne fuori il fotogenico (splendidamente rilevato dall'operatore Giulio Albonico), esprime in ogni punto cronologica autenticità. Come ha fatto Maselli a intuire il fulgore cimiteriale di quel Lungopò, e Superga e Porta Nuova 1934, marca littoria?» (L. Pestelli, "La Stampa", 26.6.1975).
«Da un lato il Partito comunista ha accolto il film con grande entusiasmo, svirilizzandolo di tutti gli elementi problematici che ne facevano un'opera, seppure con i suoi limiti, aperta al dibattito politico, nel chiaro tentativo di ridurlo a "film medaglia" per "meriti di partito". Dall'altra parte è mancato un tentativo qualsiasi, fatte alcune rare eccezioni, di usare tutti gli elementi dialettici presenti per ribaltare il giudizio del Pci e dare un contributo critico che portasse il dibattito nei termini corretti, soprattutto dal punto di vista metodologico. Nonostante ciò, la storia de 11 sospetto appartiene a tutti noi, fa parte del nostro modo di essere oggi "diversi", più coscienti della profonda trasformazione operata dagli errori, dalle vittorie e alle sconfitte sull'intero schieramento di classe. [...] Maselli ci offre un momento della storia del Partito comunista italiano che è patrimonio di tutto il movimento operaio, che si pone come eredità critica non soltanto per il Pci, ma anche - e con qualche peso - per tutta la sinistra rivoluzionaria. La storia della III Internazionale, la battaglia per il comunismo e tutti gli episodi, quelli gloriosi come quel drammatici, ci appartengono. In tale ottica il film si pone, con I'emblematicità non certo "meritocratica", anzi, di angosciosa presenza e di stimolo per una riflessione collettiva, "anche" sul modo di essere oggi dei militanti della sinistra di classe» (R. Alemanno, "Cinema Nuovo" nn. 235/236, maggio/agosto 1975).
«Finalmente, diciamolo subito, un andare a ritroso nel tempo senza nostalgie, senza malinconie equivoche: ma con lucidità e durezza (anche se Maselli, con Gli indifferenti, giusto dieci anni fa aveva dimostrato di sapere rievocare il fascismo con vitrea implacabilità nei suoi guasti interni piccoloborghesi). Opera onesta, rigorosa e irta di difficoltà, Il sospetto (ma come era più bello il titolo La missione di Emilio R. nell'Italia fascista) è il film più maturo e personale di Maselli, alle soglie dei 45anni. […] Coraggioso film, che Maselli e Solinas hanno costruito in una rievocazione fredda, tesissima del clima e della qualità di quegli anni. Il fascismo quotidiano visto con gli occhi della clandestinità e di una insopportabile tensione interiore: si guardi a Emilio al cinema, in uno dei tanti momenti di attesa, davanti al film che materialmente non vede, come in un rituale che non gli appartenga; e il momento, invece di abbandono (da vecchio habitué del loggione all'opera) al Regio, prima di uscire in piazza Castello incontro al compagno, il primo che incontra, che lo attende alla guida di un taxi. Si pensi inoltre a quante suggestioni letterarie evitate (il Po, Villa Genero, la Strada del Nobile, che non sono certo quelli di Pavese) per andare diritto a una sorta di rigida geometria narrativa nella quale i rumori e i suoni di fuori inseriscono un sottofondo continuo, allarmante e diverso rispetto alla presenza del clandestino, al blocco di ferro del suo mondo interiore. Su tale metro stilistico, esemplari sono tutti gli incontri, sull'imbarcadero davanti ai Murazzi (con quel segno di allerta alla fine della panoramica che inquadra un uomo e una donna), a Superga tra le assurde tombe dei Savoia e infine al Museo Egizio, che potrebbe essere l'incontro decisivo, ed è dato tutto come visto e non ascoltato, con una lunga carellata all'altezza delle finestre nella via dove sferragliano i vecchi tram e passano le automobili. In definitiva il distacco emotivo coincide con quello, razionale e risoluto, del protagonista e testimonia di una perfetta fusione unitaria. La programmatica impassibilità espressiva dei film è dunque quella di Emilio (una delle prove più alte di Volontè), il rigore stilistico diventa anche rigore morale, e quell'essere straniero, sempre, in un paese straniero (sia l'Italia, sia la Francia) sottintende una missione che metaforicamente va al di là dei viaggi di un fuoruscito, in un universo oggettivizzato con martellante precisione» (P. Pintus, “Sipario” n. 346, marzo 1975).
«La sceneggiatura del film, per la quale lo stesso Maselli si è affiancato a Franco Solinas, autore del soggetto, non è limpida come si vorrebbe. La prima parte, anche per certi flash-back non necessari, soffre di sovrappiù didascalici e di oscurità nei trapassi, e l'impianto ideologico farà discutere per l'eccessiva attenzione prestata ai contorsionismi in cui sembra risolversi il dibattito politico. Ma a queste carenze Maselli, che vuole anche esprimere un giudizio sulla sconfitta dei padri, sopperisce rievocando senza indulgenze un antifascismo spesso capzioso e insicuro, irretito dalla logica della cospirazione, e ricorrendo a una scioltezza di riprese, a una vivacità di ritmo e a una densità di toni che ripagano con la lucidità del linguaggio i grumi della storia. Quando poi, nella seconda metà, il film punta tutto sulla guardinga risolutezza del militante mandato allo sbaraglio e sviluppa il motivo della diffidenza reciproca e della paura, allora ogni riserva viene a cadere. Il dramma di Emilio, che in una città percorsa di minacciose presenze deve guardarsi dagli sbirri nascosti e dai compagni forse traditori, e intanto avverte su di sé l'ambigua attesa dei capi rimasti a Parigi, è infatti esposto con grande forza visiva, ottimo incrocio fra il suspence e l'introspezione psicologica, ed esatto rapporto fra l'angosciosa solitudine del protagonista e l'ostilità dei luoghi pur familiari. La folla, il traffico, i gruppi di turisti, e sul versante del mistero il silenzio autunnale d'una villa disabitata, i muri scrostati, le fabbriche mute non fanno soltanto colore locale: sono preziosi fattori emotivi di un film che assomma ai meriti del saggio politico le inquietudini del "giallo"» (G. Grazzini, “Corriere della Sera”, 22.2.1975).
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=103
Nell’Italia del ’34 un militante comunista “critico” (Emilio, interpretato da Gian Maria Volonté) viene prima allontanato dal partito, poi – dopo un periodo di rifugio in Francia – viene riammesso e usato per scovare l’infiltrato che si annida tra le fila del centro politico di Torino.
Emilio vive un molteplice travaglio interiore e politico. Siamo nella fase in cui anche in Italia il partito procederà a riorientare la propria strategia politica: dal “socialfascismo” al fronte popolare in funzione antifascista. Emilio condivide la svolta, ma ne critica le modalità verticistiche, il mancato dibattito: prima i socialisti erano il nemico; oggi sono i compagni con cui lottare. Va bene, dice e si dice, ma come è maturata questa decisione? Perché non è stata coinvolta la base? Nei centri operai, e soprattutto a Torino, i compagni chiedono, vogliono capire. La trama pedagogica che innerva il film procede, attraverso la compagna Teresa (modellata sulla figura di Teresa Noce), a spiegare le ragioni della compartimentazione, della difesa del centro direttivo, tanto italiano quanto sovietico. I “compiti del militante clandestino” vengono ricordati con eccessiva solerzia, ed è la parte meno convincente del film.
Nonostante i dubbi, tanto personali quanto del partito, alla fine Emilio viene riammesso. Eppure il sacrificio richiestogli, e cioè farsi arrestare per smascherare l’infiltrato, è grande. Venti, forse trenta anni di galera è il prezzo di questa missione. Emilio acconsente. Torino è di importanza strategica, per via della concentrazione operaia in Fiat, e il centro del partito non può permettersi di perderlo a causa delle infiltrazioni dell’Ovra. Non c’è “lotta interiore” in Emilio, solo consapevolezza del carico affidatogli dal partito e dal destino, da sopportare con gravità. Non c’è neanche gratificazione: Emilio non è contento, è convinto. Si deve fare, perché è giusto che sia così. È un uomo con i suoi tormenti, ma anche un militante con i suoi doveri: chi prevarrà?
La strumentalità del rapporto tra militante e partito è raccontata con quella dose “inopportuna” di realismo che, ovviamente, non poteva essere accettata dal Pci, che infatti lo criticò. Una critica dura, con in prima fila, guarda caso, Ingrao.
I “panni sporchi” dovevano essere lavati in casa. Vecchio ritornello. Tutto sta nel capire perché una vicenda simile veniva giudicata come un “panno sporco”. La lotta rivoluzionaria, clandestina,comporta asprezze difficili da decifrare in tempi di quiete. Comporta, tra le altre cose, una ragione di partito superiore agli interessi dei singoli militanti. È giusto? Complicato rispondere, di questi tempi. In una scena del film, un commissario politico del centro estero ricorda a Emilio: il primo dovere di ogni militante è di non farsi catturare. Questa è la regola per salvaguardare l’organizzazione. Ma se la cattura di un militante consente all’organizzazione di sopravvivere? L’eccezione conferma la regola, a patto che di questa eccezione si possa servire. Rigidità organizzativa ed eccezionalità convivono quotidianamente nel partito rivoluzionario. Emilio lo capisce e non se ne rammarica.
Alla fine, davanti al funzionario dell’Ovra che gli ripete che “il partito ti ha usato”, invitandolo a tradire, Emilio ripete ostinatamente: “sono un militante del partito comunista italiano, non altro da aggiungere”. E di fronte alle insistenze, alla fine, “cede”, ma in modo inaspettato: “ma questo io l’ho sempre saputo. Eravamo d’accordo”. Il rapporto è di disciplina, senza retoriche estetizzanti ed “eroizzanti”. Volonté, in questo, è come sempre molto bravo. È il partito a fare la parte del “cattivo” in questo caso, coi suoi “grigi burocrati” e le sue logiche perverse. Un cattivo necessario però. Necessario e, ancora peggio, consapevole. Un manovratore di destini altrui. Brutta storia, eppure inevitabile.
Non potemmo essere gentili, ci ricorda Brecht. Solo in tal senso è possibile perdonare la disumanità della lotta clandestina.
ALESSANDRO BARILE
https://www.lordinenuovo.it/2020/05/06/cinema-ritrovato-il-sospetto-di-francesco-maselli-1975/
“Sono un militante del partito comunista italiano e non ho altro da dichiarare”. Era il 1975 e nessuo si sarebbe immaginato che il “compagno Emilio”, col volto intenso di Gian Maria Volontè, sarebbe diventato un’icona di quegli anni. Non solo di piombo, ma anche di conquiste sociali, politiche, culturali, col picco storico del Pci oltre il 33%.
Così Il sospetto diventò il film su cui “si formarono generazioni di comunisti” e la frase di Volontè rivolta al funzionario dell’Ovra fascista che gli offriva di farsi spia per salvarsi la pelle, una sorta di “tormentone” di quegli anni carichi di speranze, finiti sotto il peso dalla lotta armata.
A raccontarcelo è lo stesso autore del film, Citto Maselli, nella “seconda puntata” di questo nostro viaggio nella storia d’Italia attraverso il suo cinema, cominciata a partire dal Sessantotto con Lettera aperta a un giornale dclla sera.
“Erano gli anni della grande spinta in avanti del Pci – spiega Citto Maselli – e Luigi Longo, segretario del partito subentrato a Togliatti, esortava perché si cominciasse a dire, finalmente, la verità sul partito comunista italiano, sulle origini, il settarismo, le sue spaccature, il clima di sospetto degli anni Venti e Trenta. Uscirono così i libri dello storico Paolo Spriano, di Camilla Ravera, di Teresa Noce, importantissimo il suo Rivoluzionaria professionale, e si andava sviluppando una ricca memorialistica. In tanti scrissero le loro autobiografie da cui emergeva la storia complessa dei partiti comunisti nel mondo coordinati dalla Terza Internazionale. Emergeva anche in diversi racconti, l’ingerenza sovietica staliniana nel partito, durante gli anni più bui del fascismo, quando operava clandestinamente dalla Centrale estera di Parigi . Vennero fuori, così, tante storie personali, racconti, ricordi… Scritti con cura malgrado tanti di loro fossero proletari, operai, contadini, mondine…”. Rivelazioni, per molti versi, inimmaginabili, allora. “Lo stesso Longo – prosegue Citto – la cui fuga dalla Francia occupata dai nazisti era stata organizzata con un aereo da Nizza per portarlo in Urss, preferì farsi arrestare dai fascisti piuttosto che andare a Mosca”.
Insomma, una massa enorme di materiali, dunque, che Citto Maselli cominciò a leggere, esaminare, studiare. “Giornate intere passate all’Itituto Gramsci – ricorda – in cui, insieme a Stefania (Stefania Brai, responsabile cultura di Rifondazione comunista e sua compagna di vita, n.d.r), abbiamo letto di tutto per cui ho potuto poi scrivere La missione di Emilio R. nell’Italia fascista – che a tutte quelle testimonianze è ispirata”.
Ossia, come vediamo nel film, la storia di Emilio, militante comunista allontanato per le sue critiche e poi riaccolto dal partito che, nel 1934, viene inviato in Italia dalla Centrale parigina per smascherare una spia che sta compromettendo l’operato clandestino del Pci, nel momento dei grandi scioperi nelle fabbriche del Nord. Salvo poi scoprire di essere stato usato come esca dai compagni e, una volta arrestato, rifiutarsi di collaborare con l’Ovra (“Sono un militante del partito comunista italiano italiano e non ho altro da dichiarare”, appunto) e accettare il carcere, nonostante il tradimento subito.
Trovata la storia, dunque, Citto Maselli pensa bene di chiamare a sè altri due comuisti: Franco Solinas per la sceneggiatura e Gian Maria Volontè nei panni del protagonista. “Con Franco – prosegue il regista – il lavoro è stato molto intenso. Solo che ad un certo punto, io che sono sempre stato abituato a riscrivere i dialoghi la sera prima delle riprese, mi sono trovato con qualche difficoltà. Così, per ripensarci in solitudine, sono sparito per un po’ raccontando a tutti di essere stato ricoverato in clinica… Mentre arrivavano telefonate di amici e compagni, soprattutto dall’Anac, preoccupatissimi!”.
Volontè, comunque, “era entusiasta – dice ancora Citto – l’idea di raccontare la storia dei comunisti durante il fascismo gli piaceva moltissimo. E nonostante qualche tensione sul set si gettò subito dentro la sceneggiatura, da vero attore-autore qual era”. Il film fu prodotto dalla Cinericerca – Grazia Volpi direttrice di produzione – insieme all’Italnoleggio e costò quasi un miliardo di lire: “Ricostruire gli ambienti d’epoca, le riprese a Parigi, Torino era molto costoso – spiega il regista – . E poi il montaggio, che ho fatto insieme a Vincenzo Verdecchi, pieno di salti temporali e flash back è durato un anno”.
Il titolo, poi, Missione nell’Italia fascista, “venne cambiato per paura da parte degli esercenti di possibili attacchi fascisti nelle sale”, ricorda Maselli. Paura non peregrina in quegli anni, quando le squadracce mettevano a ferro e fuoco i cinema che, poche stagioni prima, proiettavano Allarmi siam fasciti! di Del Fra, Mangini, Micciché…
Così si optò per Il sospetto, anzi Il sospetto di Francesco Maselli a causa dell’intervento della casa di produzione americana Rko che deteneva i diritti di Suspicion di Alfred Hitchcock del 1941, in italiano, appunto, Il sospetto.
E alla fine, neanche “i sospetti” del Pci ostacolarono il successo del film. Alla proiezione presso la Direzione del partito “Longo prendendo di contropiede tutti – ricorda Citto – esclamò ad alta voce : bravo Maselli, hai fatto un bellissimo film!”. Sull’Unità la recensione entusistica di Ugo Casiraghi apparve sotto il titolo: “Quando il cinema è arte”. Pajetta sull’Espresso scrisse: «La prima affermazione che voglio fare è che, in questo film, ci riconosciamo. E, riconoscendoci, pensiamo che se il pubblico vede nel Sospetto di Maselli un Pci di duri, non lo consideriamo un fatto negativo”. Mentre Moravia – sempre sull’Espresso – spiegava che «Il merito del regista di fronte a questa vicenda politica così ristretta e individuale è stato […] di privilegiare il momento esistenziale su quello storico. Emilio è prima di tutto un uomo che rischia la vita per la causa in cui crede…”.
Il dibattito fu acceso nei tempi a seguire, e il pubblico riempiva i cinema. Tanto che Citto Maselli pensò di proseguire il racconto di quegli anni spingendosi più in là. “Affrontando il ’39 – conclude – la guerra di Spagna, il ruolo dell’Internazionale, gli anarchici… Però, man mano che andavo avanti venivano fuori cose sempre più terribili dello stalinismo di quegli anni che sarebbe stato difficile, in un film, inquadrare nella giusta luce storica. Per cui non sono andato avanti”.
Passeranno infatti oltre dieci anni prima di decidere di rimettersi dietro alla macchina da presa per Storia d’amore nell’86. Ma questa, appunto, è un’altra storia che racconteremo nella prossima puntata.
https://www.bookciakmagazine.it/il-sospetto/
Muchas gracias,que tiempos aquellos en que el cine entretenia y hacia pensar,hoy en dia el cine gUSAnico en especial es propaganda imperial y exposicion de lo que mas tarde realizaran a nivel mundial
ResponderEliminarGracias Amarcord!
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