TÍTULO ORIGINAL
La finestra sul Luna Park
AÑO
1957
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separado) e Italiano (Opcional)
DURACIÓN
90 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Comencini
GUIÓN
Suso Cecchi d'Amico, Luigi Comencini, Luciano Martino (Historia: Suso Cecchi d'Amico, Luigi Comencini)
MÚSICA
Alessandro Cicognini
FOTOGRAFÍA
Armando Nannuzzi (B&W)
REPARTO
Gastone Renzelli, Giulia Rubini, Silvana Jachino, Pierre Trabaud, Luigi Russo, Calina Classy, Gisella Mancinotti, Remo Galli, Lina Galli, Primo Raschi, Vittoria Marone, Giancarlo Damiani
PRODUCTORA
Noria Film, France Cinéma Productions
GÉNERO
Drama | Infancia. Familia
Premios
1957: Festival de Berlín: Sección oficial de largometrajes
Nella Roma degli anni Cinquanta il piccolo Mario perde la madre, investita da un’auto, e viene raggiunto da suo padre Aldo, lontano da tempo per lavorare in Africa. Da perfetti sconosciuti, figlio e padre si trovano a percorrere un faticoso avvicinamento. Cerca di aiutarli Righetto, uomo fragile e solitario che in assenza di Aldo si è occupato del bambino. [sinossi]
Una delle sfide che sembrano innervare con ricorrenza molto cinema di Luigi Comencini può essere identificata nell’evocazione dei sentimenti senza mai concedersi ai sentimentalismi. Specie nella parte della sua filmografia dedicata all’infanzia, Comencini non si nasconde mai dietro a un dito, affronta di petto materiali narrativi che sulla carta potrebbero rimandare a scenari di dramma conclamato e lacrimoso, ma conducendoli a una personalissima temperatura di sobrietà e malinconia.
In tal senso, la sfida più alta appare senz’altro la trasposizione di Incompreso, 1966, che fa piangere perché semplicemente c’è da piangere, non perché l’autore ci ricatta; e piangiamo non (solo) per l’agonia di un bambino, ma perché vive e muore da solo, trascurato, cacciato nell’angolo da chi non vuol vedere, chiuso al di là di quel solco abissale tra padri e figli per via del quale il bambino è ontologicamente solo, perché lui solo sa che cosa vuol dire costruire, giorno dopo giorno, la propria identità. Un’identità sempre uguale e diversa da quella di altri piccoli esseri umani in via di formarsi. Tutti alle prese con lo stesso percorso, ognuno col proprio specifico dolore. Ci si commuove, in fondo, non per un lutto, non per l’immedesimazione nelle squisite credibilità di figure infantili, ma per il racconto di una solitudine che, prima o poi, nella nostra preistoria, ha riguardato tutti noi.
Nessun occultamento e nessuna operazione algida e distaccata su materia rovente: nel cinema di Comencini i sentimenti ci sono e sono spesso in gioco, orgogliosamente dichiarati, ma come emanazione di una dimensione psicologica mai banale, che pur su schemi narrativi archetipici scende in profondità e scopre universali malinconie.
Titolo assai poco noto della lunga filmografia comenciniana, La finestra sul Luna Park (1957) appare in tal senso emblematico. Alla sua scarsa fama contribuisce probabilmente il cast composto da buoni attori, ma non di chiara notorietà. Nel ruolo principale troviamo Gastone Renzelli, operaio che esordì al cinema grazie a Visconti nei panni del burbero marito di Anna Magnani in Bellissima (1951) e che tornò a fare il proprio mestiere dopo aver realizzato solo altri tre film. Mentre Ada è interpretata dalla graziosa e dimenticata Giulia Rubini, Righetto è impersonato da Pierre Trabaud, volto tormentato da realismo francese. Considerato a torto un’opera minore, il film si delinea in realtà come uno dei più fedeli a quello spirito comenciniano cui si accennava.
Dopo il grande successo di pubblico ottenuto con i primi due capitoli della saga popolaresca Pane amore e…, Comencini sembra voler prendere le distanze da quelle garbate commedie che pure tanta fortuna gli portarono, per cercare una propria via personale che, tenendo conto di un generale pregresso cinematografico italiano, rispecchi una specifica lettura, una riflessione sul destino dell’uomo, rintracciato nei suoi esordi di vita. Il soggetto ripercorre infatti luoghi assai conosciuti al nostro cinema dal dopoguerra in poi: l’orizzonte sociale della ricostruzione, la Roma brulicante di attività e frenesie proletarie, il lavoro frammentato, necessario e cercato con vero entusiasmo. La necessità, innanzitutto, di garantirsi e garantire alla propria famiglia un’esistenza dignitosa.
Neorealismo, post-neorealismo e anni Cinquanta italiani: uno sfondo culturale ed espressivo del tutto pertinente al film, ma che funge solo da scenario familiare per una diversa riflessione.
Mario è un bambino che nella Roma dell’epoca perde la giovane madre Ada, investita da un’auto. Al funerale accorre anche suo padre Aldo, che non vede da anni perché l’uomo è impegnato a lavorare in Africa, un’ottima occasione per mettere da parte un po’ di soldi, mandarli a casa e sperare in un futuro migliore al suo rientro. Ritrovatisi uno di fronte all’altro come due perfetti sconosciuti, padre e figlio iniziano un faticoso percorso di avvicinamento, tra egoismi e diffidenze, in cui gioca un ruolo fondamentale Righetto, fragile uomo solitario che durante l’assenza di Aldo si è preso cura di Ada e del bambino. Liti, incomprensioni, e una difficile decisione da prendere.
Anche in questo caso il racconto della solitudine infantile conserva accenti sinceri e penetranti, ben sottolineati da specifiche scelte linguistiche; alle brevi pagine di pedinamento intorno a Mario, collocato nei consueti paesaggi di campi e cantieri anni Cinquanta, si affianca un utilizzo ancor più espressivo della profondità di campo, che spesso interviene a sancire l’incolmabile distanza tra il bambino e suo padre.
Aderendo a una classica vicenda di affetti “rubati”, con tanto di esemplare padre putativo che suscita gelosie, Comencini rasenta intenti edificanti spostandosi a poco a poco verso tutt’altro: una sommessa decostruzione d’illusioni ben sottolineata fin dal bellissimo titolo.
Per Mario, che scorrazza per i montarozzi di Roma in calzoni corti, la dimensione del piacere, così tanto declamata dalle trombe istituzionali della ricostruzione, può essere solo osservata da lontano, dalla finestra di casa che si apre sui fascini e i colori di un luna-park allestito nei dintorni. La radicale distanza e solitudine di chi può solo osservare, senza partecipare. Non a caso una delle sequenze più significative è dedicata a uno spettacolo di circo, forma d’intrattenimento per poveri che, nelle vite di Mario, Ada e Righetto assume per un attimo i tratti di inaccessibili meraviglie. La bella metafora del titolo si espande in più direzioni, coinvolgendo soprattutto l’evoluzione di Aldo e spingendo il film verso indiretti territori politici.
Di fatto Aldo si configura come una vittima dell’illusorio progressismo sociale, motore culturale montato ad arte da tutto un paese che, con le scosse adrenaliniche di un ottovolante, promette magnifiche sorti e progressive a un popolo povero se accetta di tramutarsi in schiavo di nuovi assetti produttivi, inducendolo a dimenticare gli affetti pur nell’illusione di operare per essi (vedasi la pregnante sequenza delle partenze dei lavoratori alla stazione e i relativi metodi di reclutamento). Comencini si fa forte infatti di un approccio onesto e “umanistico”, che va a indagare per timidi cenni nelle pieghe della buonafede, delle condivisibili aspirazioni di un padre che, pensando di operare nell’interesse della propria famiglia, perde la moglie e rischia di condannare un figlio alla solitudine. Un figlio che è facile catalogare per “scemo” solo perché un retrivo sistema scolastico è assolutamente incapace di stimolare la sua specifica intelligenza.
Altrettanto interessante è la rilettura condotta da Comencini su consueti luoghi narrativi del nostro cinema. Se il (post)neorealismo resta uno sfondo ben riconoscibile, La finestra sul Luna Park indugia palesemente in un altro tipo d’indagine sui personaggi, a cominciare dalla macchina da presa spesso posta ad altezza-bambino. Oltre ai frequenti contre-plongés dagli occhi di Mario sul padre, è rintracciabile una breve soggettiva in tal senso perfettamente esemplare: in attesa alla fermata dell’autobus, Mario scruta il padre in una serie di dettagli, dalle scarpe al vestito, ai suoi gesti. Un misto di soggezione e curiosità per un territorio mai conosciuto ed esplorato, in un evidente movimento di sfida e desiderio d’imitazione.
Ancor più palesemente Comencini fa affondi psicologici nel lungo flashback che rievoca i giorni di Ada in compagnia di Righetto, che la aiuta a tenere a bada il bambino. In particolare la sequenza al mare, e i relativi dialoghi tra Ada e Righetto, scavano a fondo nei dubbi e nelle insicurezze di due esseri umani che in qualche modo si sentono esclusi o maltrattati da incomprensibili dinamiche sociali (tanto per giocare un po’ allo “schermo velato”, viene pure da pensare che Righetto sia un occultatissimo omosessuale).
Non si tratta mai di notazioni che enunciano pesantemente contenuti didattici; Comencini lascia che siano le immagini, i fatti e parole “altre” a evocare riflessioni, adottando sempre un linguaggio traslato che aderisce a credibili figure. A sancire l’avvicinamento tra padre e figlio interviene poi un’ulteriore finezza: il primo vero contatto fisico tra i due, quando Aldo, dopo qualche titubanza, se lo prende sulle spalle. In qualche modo è anche l’adesione a un nuovo ruolo di padre e a una nuova pedagogia. All’autorità subentra la complicità, l’unico modo per potersi conquistare l’affetto di Mario.
Così, prendendo le mosse da una materia narrativa piuttosto consueta e non disdegnando le cornici del racconto edificante, Comencini allestisce dinamiche tra personaggi che si caratterizzano per un profondo spessore morale, le cui scelte appaiono sempre problematiche e in costante, nobile autoanalisi. Mentre le loro vicende si espandono a raccontare universali inadeguatezze e le illusioni di un intero paese. E mentre Mario lotta contro autorità e istituzioni, che siano scuola o padri (come i bambini di Proibito rubare, come l’incompreso Andrea, come il giovane Casanova, come Pinocchio, come Eugenio…), per affermare di esistere, per gridare “Io sono qui”. Per rivendicare un padre, ché, parole sue, “Mica sono orfano io”.
Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2015/10/11/la-finestra-sul-luna-park/
Aunque conoció una efímera fama, a partir del éxito alcanzo con la brillante TUTTI A CASA (Todos a casa, 1960) -dentro de uno de los ámbitos temporales de mayor riqueza del cine europeo-, lo cierto es que el destino no ha deparado una especial consideración hacia la figura del lombardo Luigi Comencini (1916 – 2007). Es cierto que en una filmografía que sobrepasó los cuarenta largometrajes, se encontraban títulos abiertamente alimenticios, entre ellos, algunas incursiones en la sucesión de comedietas PANE, AMORE, E… Pero, con todo, me atrevo a afirmar que el conjunto de su obra tiene bastantes más atractivos de los que se pudiera considerar a primera vista, incluso en ese periodo previo al de 1960, en donde el destino me ha permitido descubrir dos propuestas llenas de interés. Una de ellas, el emotivo y sorprendente homenaje al cine silente italiano, que brindaría la casi ignota LA VALIGIA DEI SOGNI (1953). Y la otra, lo ha supuesto el visionado de LA FINESTRA SUL LUNA PARK (1957). Dos títulos que no solo carecieron de estreno comercial en nuestro país, sino que nunca han provocado la más mínima referencia, dentro de la historiografía del cine popular italiano y que, antes que nada, revelan una especial sensibilidad, en un realizador todavía aún hoy día no analizado en profundidad.
En el último de los títulos citados, nos encontramos con un melodrama descrito en el extrarradio de esa Roma que se debate entre la miseria y el progreso, contando de entrada con dos factores que le proporcionan una extraña singularidad. De una parte, la presencia de una base argumental del propio Comencini, contando igualmente con la gran argumentista del cine italiano; Suso Cecchi D’Amico. Con esa premisa no se podía fallar. De otra, se acentuaría ese rasgo de neorrealismo perdido, con la anuencia de un reparto de intérpretes apenas conocidos, con los que se proporcionaría una sensación de rara autenticidad. Pero la película, tarda muy poco en noquear al espectador. En apenas dos planos -uno ascendente y descendente de grúa-, y otro fijo hacia el que se acercarán aterrorizados los familiares de la víctima. Será la terrible y punitiva expresión cinematográfica, que describirá la muerte, atropellada por un camión, de la joven Ada (Guilia Rubini). De inmediato asistiremos a su sepelio, plasmado en una secuencia oscura y sombría -el aporte de la iluminación en blanco y negro de Armando Nanuzzi, resulta esencial, para acentuar esa tensión interna del relato-, en la que aparecerá Aldo (Gastone Renzelli). Se trata del ya viudo, que ha estado varios años trabajando en África, al objeto de conseguir una solvencia económica, aunque ello le haya llevado a alejarse de su esposa y de su hijo, el pequeño Mario (Giancarlo Damiani). Ya en esa dolorosa secuencia tras el sepelio, podremos intuir el alejamiento del niño, que se distancia de su padre, y en cambio muestra su cercanía con el bondadoso Righetto (Pierre Trabaut). Muy pronto vislumbraremos el desapego de Aldo en un entorno que abandonó por voluntad propia, el alejamiento de su familia, y, con ello, la casi nula comunicación que establece con Mario, siendo ambos incapaces de romper un muro de incomunicación establecido por la ausencia prolongada del primero, dejando que el pequeño vaya sobrellevando una difícil escolaridad, que en apariencia encubre su dificultad intelectual. Sin embargo, solo Righetto conocerá a ciencia cierta a ese chavalín, actuando casi como esa figura paterna ausente en él.
A partir de estas premisas, el sensible film de Comencini se articula en cuatro vertientes, imbricadas en el relato con notable armonía. Una de ellos, es quizá la más perceptible; la plasmación del reencuentro de Aldo entre sus orígenes, representado en la figura de su pequeño hijo, con el que no acierta a consolidar sus lazos como padre, llegando incluso a plantear internar al muchacho en un orfanato, para poco después marcharse de nuevo a África. Otra mirada se extiende a partir de la inocencia de Mario, incapaz de evadirse del apego emocional sentido hacia Righetto, a quien considera en todo momento un modelo, por más que este siempre respete la autoridad de su padre. Aparecerá igualmente una muy interesante subtrama, narrada en un inesperado flashback por el propio Righetto, tras una pelea disputada con Aldo, en la que se plasmará algo que el segundo ha ido almacenando casi de inmediato; su sospecha -infundada- de que el primero mantuvo un romance con su esposa.
Y finalmente, surgirá el que para mí supone el elemento más palpable de la película -sin desdeñar los anteriores-. Este es el de saber describir un vivo documental, de esa Italia que se encontraba a punto de abandonar la miseria de la posguerra, aunque aún no había dado el salto para el desarrollismo y el progreso urbano. Ese contraste con las frías y nuevas edificaciones, asentadas solitarias sobre calles asfaltadas en las que apenas pasan vehículos, en su contraste con vertederos y vetustas y polvorientas viviendas, que parecen indeseados ejemplos de un triste y olvidable pasado. O esa feria nocturna, que parece erigirse como clavo ardiendo, para una población que desea evadirse de su frustrante rutina diaria. Todo ello confluye sin demasiados altibajos, en una película que sabe orillarse con naturalidad en los perfiles del melodrama, destacando en él las secuencias en las que el espectador, junto con el viudo y el pequeño Mario, “sienten” físicamente, la ausencia de Ada. Ese reencuentro con la vivienda, en el que Aldo y el niño, contemplan los vestidos que usaba, la foto que aparecía en su tocador. El instante en el que el viudo evoca un par de fotos que tenía de Ada… Hay también una mirada de menor intensidad, que se centra en la miseria de esa sociedad para la que no ha llegado una mejora en su bienestar. Las penurias de la familia de Aldo, la dureza de las condiciones de trabajo de Righetto en un vertedero, el chismorreo de esa vecina que espolea a su hija y su novio, para comprar la casa del viudo, cuando este en principio va a retornar a África…
No obstante, en el devenir de LA FINESTRA SUL LUNA PARK, hay una extraña sensibilidad, que nos hace olvidar la escasa entidad que adquiere esa joven de vida alegre que, por un momento, hemos pensado podía haberse ligado al viudo. No importa, con sus pequeñas limitaciones, nos encontramos con una obra llena de autenticidad, que ratifica el interés en la obra de un realizador, al que convendría ir redescubriendo en el grueso de su filmografía.
http://thecinema.blogia.com/2019/040701-la-finestra-sul-luna-park-1957-luigi-comencini-.php
Muchas gracias
ResponderEliminarGracias a vos por estar siempre presente.
EliminarMe levo feliz este Comencini a casa. Gracias amigo!
ResponderEliminar